La rabbia delle madri russe
Nella guerra fra Russia e Ucraina, ci sono le madri dei giovanissimi soldati russi a dar voce a una disperazione che il Cremlino cerca in ogni modo di mettere a tacere.
La rabbia delle madri russe
Nella guerra fra Russia e Ucraina, ci sono le madri dei giovanissimi soldati russi a dar voce a una disperazione che il Cremlino cerca in ogni modo di mettere a tacere.
La rabbia delle madri russe
Nella guerra fra Russia e Ucraina, ci sono le madri dei giovanissimi soldati russi a dar voce a una disperazione che il Cremlino cerca in ogni modo di mettere a tacere.
Nella guerra fra Russia e Ucraina, ci sono le madri dei giovanissimi soldati russi a dar voce a una disperazione che il Cremlino cerca in ogni modo di mettere a tacere.
Le madri non hanno bandiera. In questa guerra, che ha messo contro due popoli vicini, ci sono loro a dar voce a una disperazione che il Cremlino cerca in ogni modo di mettere a tacere. Sono le mamme dei soldati russi, per lo più giovanissimi. «Li hanno spediti a combattere con l’inganno, non sapevano neanche dove erano diretti» dice una di loro. «Li hanno usati come carne da cannone. Li hanno mandati a morire» dice un’altra, rivolgendosi in un video al governatore di una regione della Siberia che non fa altro che replicare ribadendo che si tratta di una “operazione speciale” e che «nessuno può fare commenti per ora».
Proprio la voce di queste donne racconta quello che Putin ha tutto l’interesse a celare: di come sia tutt’altro che compatto il suo popolo. Anche chi è andato a combattere lo sta facendo soltanto perché costretto. È il caso dei giovanissimi militari di leva: se non si presenteranno di loro spontanea volontà potranno essere reclutati anche con una lettera e non obbedire alla chiamata alle armi verrà considerato un reato di cui rispondere davanti alla Corte marziale.
Il presidente russo di fatto intende obbligare ragazzi poco più che maggiorenni ad andare al fronte in Ucraina, nonostante il divieto per legge di usarli nelle prime linee. Per le loro mamme, unite dalla paura e dalla disperazione, Kiev ha istituito un numero di emergenza. Possono chiamare gli ucraini per sapere se i loro figli siano vivi, morti o prigionieri. Per sapere se possono andare a ritirare i loro cadaveri, come hanno promesso le autorità ucraine. In pochi giorni sono arrivate oltre 4mila chiamate.
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Tantissimi sono poi gli appelli pubblicati sui social, in canali dedicati a chi ha un figlio al fronte. Nelle foto di quei documenti di identità si legge 2001, 2002 e ci si rende conto che molti di quei soldati sono davvero giovanissimi. Si usa la Rete perché da Mosca la direttiva è il silenzio, neanche a queste mamme vengono date notizie sui loro ragazzi. D’altronde all’ombra del Cremlino si nega qualsiasi cosa: confermare nomi e volti di morti, feriti e prigionieri significherebbe ammettere quello che sta avvenendo sul suolo ucraino.
É paradossale che a queste donne disperate le uniche notizie arrivino dal ‘nemico’, ma rende perfettamente l’idea di quanto vi sia un abisso – umano – nel modo di gestire il conflitto dall’una e dall’altra parte. Ed è incredibile, ma comprensibile, che la voce che si leva più forte, da dentro i confini russi, sia proprio quella di queste mamme.
Non hanno paura di urlare, non hanno paura di far sentire la loro voce perché lì al fronte c’è quello che hanno di più caro al mondo: quei ragazzi che sorridono in foto, che pensavano di partire per delle esercitazioni e che invece si sono trovati a combattere una vera guerra. Giovani che forse non diventeranno mai adulti. E che già oggi possono essere uno di quei corpi in mimetica crivellati di colpi ritratti nelle terribili foto postate in quegli stessi gruppi di ricerca.
Si può soltanto provare a immaginare lo strazio e l’angoscia di queste donne che rischiano di scoprire così, dai social, che il proprio figlio non c’è più. Forse non fermeranno Putin – nessuno oggi in Russia sembra in grado di farlo, almeno per il momento – ma ci restituiscono la giusta immagine di un popolo che non può e non deve essere interamente identificato col suo presidente.
Di Annalisa Grandi
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