Singolare Paese, il nostro. C’è un capo dello Stato in scadenza di mandato che, in quanto presidente del Consiglio superiore della magistratura, si rivolge alle toghe chiedendo loro di mettere definitivamente da parte «autoreferenzialità e protagonismo» e varare una riforma del Csm che recida il bubbone del correntismo.
L’informazione, salvo alcune lodevoli eccezioni, tratta la questione come una rituale sortita presidenziale; la colloca nelle pagine interne dei giornali; concede passaggi tv quasi in ossequio a una routine di cortese riguardo. Ma la cosa più stupefacente è l’atteggiamento delle toghe che non fanno una piega nonostante le scorie di recenti vicende abbiano procurato un colpo di maglio all’autorevolezza e al prestigio dei magistrati, con i cittadini sempre più sconcertati e senza che nulla si sia mosso per modificare l’andazzo. Quasi mostrando sufficienza per la possibilità che anche stavolta le parole del capo dello Stato abbelliranno le raccolte degli interventi ufficiali e poi cadranno nel vuoto come sempre.
Rattrista e inquieta che l’allarme non venga recepito. È servita la frustata della Ue sulla improcrastinabilità della riforma della giustizia per costringere governo e Parlamento a intervenire.
Trattare le parole del presidente della Repubblica come sussulto di formalità senza provare a dare loro seguito concreto, va in direzione opposta alla necessità di «rivitalizzare le radici deontologiche» della magistratura reclamate da Sergio Mattarella. Un Consiglio riformato non è più una scelta: è diventato un obbligo, perché lasciare tutto come ora risulterebbe tanto consolatorio quanto ipocrita. Invece il tempo della riforma è adesso, al tempo del governo Draghi che, salvaguardando l’autonomia delle toghe, grazie alla competenza della Guardasigilli Marta Cartabia può garantire una opportuna e qualificata interlocuzione a livello istituzionale.
C’è di più. Il monito di Mattarella andrebbe raccolto senza indugi anche perché all’orizzonte si profilano referendum sul Csm e altri delicati terreni giudiziari – dalla separazione delle carriere alla responsabilità civile dei magistrati – che se ammessi dalla Consulta possono alzare a dismisura la radicalizzazione sui temi giudiziari. Sarebbe un’ulteriore e forse decisiva spinta alla delegittimazione se a determinare la riforma del Consiglio fossero costretti i cittadini e non chi è costituzionalmente delegato a farlo.
Di Carlo Fusi
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