Si è tenuta ieri la cerimonia di apertura dei Giochi invernali di Pechino. Sono i Giochi del Covid-19, ma anche del climate change, delle spese, della parità di genere e molto altro ancora.
Una cerimonia mignon, a -10 gradi, dinanzi a un pubblico a inviti. Lo stadio Nido d’Uccello, dove 14 anni fa Usain Bolt divenne leggenda, saluta i Giochi invernali di Pechino. Stavolta nessuna esibizione muscolare di potenza all’Occidente ma giochi di luce, tracce di intelligenza artificiale e il claim del futuro condiviso durante la sfilata di 91 nazioni.
Sono i Giochi del Covid-19 (il conto aggiornato è di oltre 300 positivi, compreso lo slittinista azzurro Fischnaller), che la Cina ha conosciuto per prima. Sono le Olimpiadi del climate change e a Pechino la neve è solo artificiale. Secondo uno studio della canadese Waterloo University, senza una significativa riduzione delle emissioni di gas serra solo una delle precedenti 21 sedi dei Giochi invernali potrebbe ospitarli nel 2080. Troppo caldo.
Sono i Giochi delle spese (oltre 38 miliardi di dollari, contro la stima iniziale di 3,9 miliardi), della parità di genere (52 gare maschili, 46 femminili), del vaccino russo riconosciuto dal Comitato organizzatore ma non dall’Oms, dei (sette) boicottaggi diplomatici, dell’asse cino-russo rinsaldato sullo sfondo della crisi ucraina, della privacy degli atleti a rischio e dei diritti delle minoranze musulmane violati nello Xinjiang.
C’è del perfido nell’aver fatto accendere il braciere proprio da un’atleta di etnia uiguri, una più vessate dal regime. L’Italia ha sfilato in mantella tricolore con Michela Moioli portabandiera che manda abbracci a Sofia Goggia. In attesa del testimone per Milano-Cortina.
Di Nicola Sellitti
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