Nel vocabolario dell’enciclopedia Treccani il termine “reducismo” viene indicato come l’atteggiamento e il comportamento di gruppi di reduci di una guerra che richiedono particolari agevolazioni, benefici e vantaggi – soprattutto economici e di carriera – in compenso delle benemerenze (a volte presunte o esagerate) acquisite come combattenti. In ambito psicologico è una condizione, un atteggiamento, uno stato dell’animo di chi è reduce da una situazione fortemente anomala rispetto alla vita normale, che a quell’esperienza rimane legato per molto tempo e, spesso, per sempre.
Accade in politica. Accade soprattutto nel mio mondo, il giornalismo. È capitato anche a me, in due momenti della mia vita. All’inizio, giovane cronista arrivato quasi per caso in una rivista il 16 marzo 1978, il giorno della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro. Fui gettato subito nella mischia dei cronisti degli “anni di piombo”, di coloro che poi venivano indicati nelle redazioni come i “pistaroli”: sempre alla caccia, vera o presunta, di retroscena che si rivelavano alle volte, col passar del tempo, vere e proprie bufale. C’erano e ci sono ancora i “mafiologi”, quelli che in ogni fatto della vita nazionale, politica ed economica, leggono e interpretano il tutto come quelli che Leonardo Sciascia definì «professionisti dell’antimafia». Ho senz’altro fatto parte, dopo il periodo giovanile del terrorismo brigatista, dell’epopea di Tangentopoli. Per uscire dalla sindrome del reduce di “Mani pulite” chiesi e ottenni dal mio direttore, Enrico Mentana, di trasferirmi da Milano a Roma. Vogliamo poi parlare dei reduci del berlusconismo? Giornalisti, scrittori, politici che grazie all’antiberlusconismo hanno accumulato prebende, carriere, libri e direzioni di giornali. E poi ci sono i reduci delle guerre, quelli che di loro sanno tutto perché c’erano – eccome se c’erano – e hanno visto tutto, soprattutto hanno compreso nell’orrore del racconto quotidiano che la guerra è cosa brutta assai. Però non se ne perdevano una che fosse una.
Noi reduci da qualcosa adesso siamo invecchiati e il mondo è anche un bel po’ cambiato. Nuove generazioni hanno preso, naturalmente, il nostro posto di protagonisti quotidiani del racconto. Però noi capivamo e interpretavamo, non come questi giovanotti o giovanotte che sono lì, sul luogo delle atrocità, e si bevono tutto quello che gli vogliono far vedere questa o quella autorità. E così incominciamo non più a ragionare ma a giudicare, col “sopracciò” del supervisore, di chi, come dice il De Sanctis, «aveva una grande reputazione nella compagnia, e faceva da sopracciò». Non potendo più essere protagonisti sul campo, coi nostri auricolari e le nostre librerie sullo sfondo oggi nei salotti dei talk seminiamo dubbi, spariamo giudizi, contraddiciamo i nostri più giovani colleghi che – credetemi – più in là negli anni saranno anche loro affetti dalla sindrome del reduce.
di Andrea Pamparana
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