Gli aiuti di Mosca all’Italia nei giorni drammatici del primo lockdown sono stati rinfacciati con toni minacciosi venerdì scorso da Mosca. Un senso dell’avvertimento, duro e sguaiato, rivolto dal Cremlino all’Italia che si comprende solo adesso.
La rimozione non è mai una bella cosa, spesso un pessimo indizio. In genere di pavidità, ma anche del sentirsi più furbo di altri. Vale ancora di più nel caso della mai chiarita missione di aiuto e soccorso russo, in piena emergenza da pandemia nel marzo del 2020. I famosi (o famigerati) aiuti di Mosca arrivati in pompa magna all’aeroporto di Pratica di Mare, nei giorni drammatici in cui l’Italia in lockdown cercava disperatamente di approvvigionarsi di mascherine e strumentazione d’emergenza. Quell’aiuto rinfacciato con toni minacciosi venerdì scorso da Mosca.
Gli ultimi giorni sono stati più che sufficienti per analizzare il senso dell’avvertimento, duro e sguaiato, rivolto dal Cremlino all’Italia. Quanto possa testimoniare il nervosismo per le dure sanzioni europee, l’amarezza degli uomini vicini a Putin nel non trovare una sponda a Roma dopo gli anni degli sperticati elogi allo zar e tutto il resto.
Ciò che continua a mancare fragorosamente è una parola di chi in quei giorni guidava il Paese e che oggi non è andato a svernare: è nella maggioranza di governo e titolare di rilevantissimi incarichi. Da Giuseppe Conte (presidente del Consiglio che si intestò la trattativa in una telefonata con Vladimir Putin), da Luigi Di Maio (allora come oggi ministro degli Esteri) e da Matteo Salvini (all’epoca all’opposizione ma del quale non è certo necessario ricordare simpatie e vicinanze) è doveroso aspettarsi parole e chiarimenti. In Parlamento, tanto per cominciare.
Quali furono gli accordi presi all’epoca? Cosa assicurammo o promettemmo ai russi, in cambio della loro missione d’aiuto? Perché – non lo diciamo noi ma Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, città simbolo della tragedia Covid in Italia – c’erano più militari e uomini dei servizi che dottori e paramedici sui 14 aerei arrivati dalla Russia? Perché è stato riservato proprio all’Italia il ‘trattamento speciale’ delle minacce della scorsa settimana, con preciso riferimento a quella missione e al ministro della Difesa Lorenzo Guerini, oggi accusato di essersi trasformato in falco antirusso?
Qui non si tratta di esercitarsi in ricostruzioni giornalistiche o fantapolitiche, ma di pretendere di conoscere quali furono allora il livello e la qualità dei rapporti fra il governo italiano e quello russo. Perché non possiamo rimuovere anche la realtà degli anni del populismo trionfante e dell’attrazione fatale esercitata da Vladimir Putin su gran parte delle forze uscite vittoriose dalle ultime elezioni politiche in Italia.
Una stagione lunga, sull’onda di una propaganda a forti tinte antioccidentali e antiatlantiche, che portò alla “via della seta” del governo Conte uno. E poi dritto a Mosca, in un rapporto preferenziale con la Russia di Putin in cui i giudizi nei confronti del leader del Cremlino sfociarono in idolatria. Passando per Bergamo dove, come detto, il sindaco Gori ricorda molto bene gli oltre 100 russi arrivati.
Giunsero quando il Comune aveva un enorme bisogno di personale sanitario, per poter rendere operativo l’ospedale da campo che era stato allestito a tempo di record dagli alpini nel capoluogo orobico. I medici erano 10, i paramedici 20, il resto era identificato come ‘autisti’, ‘interpreti’ ed ‘esperti sanificatori’.
Che facevano e a che titolo? Tutti rigorosamente in mimetica, rivelatisi più d’intralcio che d’aiuto, totalmente a digiuno dei nostri protocolli e spesso più bisognosi di apprendere che capaci di sostenere in quei giorni di lotta feroce al virus. Al Comune di Bergamo ricordano bene quando non si potevano porre domande sul loro ruolo e lavoro. Secondo Gori, nella migliore delle ipotesi i russi fecero ‘intelligence sanitaria’, imparando come gestire il Coronavirus in patria. Nella migliore e a spese del contribuente italiano.
Per concludere, come non tornare alla scelta quantomeno singolare di Mosca di mettere nel mirino il ministro della Difesa Guerini. Non si ricorda un particolare attivismo dell’esponente del Partito democratico all’epoca della missione russa Italia, perché attaccarlo in quel modo?
La risposta non c’è ancora; di sicuro ricordiamo un momento, quello sì, di grande attivismo politico del ministro: quando bocciò senza appello l’ipotesi di eleggere alla Presidenza della Repubblica la responsabile del Dipartimento di coordinamento e sorveglianza dei servizi segreti, Elisabetta Belloni. A suggerire che, in questa storia, di non detti ce ne sono e pure troppi.
Di Fulvio Giuliani
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