“Gomorra” – cinque prime serate del venerdì, in onda su Sky per 10 episodi – si conferma prodotto seriale televisivo potente e dalla forte originalità anche in questa quinta e ultima serie. La scrittura è serrata, i colpi di scena dosati, la regia di Marco D’Amore (il Ciro della vicenda) e Claudio Cupellini perfettamente in linea con la logica del racconto e sempre volta a non mandare oltre le righe i profili dei protagonisti vecchi e nuovi. La musica dei Mokadelic sostituisce il dialogo nel sottolineare l’imminenza di un fatto tragico o più semplicemente la fine di un episodio.
Il ritorno dell’immortale Ciro è una citazione della narrativa cinematografica anche se la profondità recitativa di D’Amore e Gennaro Esposito annacquano la retorica dell’idea. L’epica di “Gomorra” invece non è mai enfatica, confermandosi prodotto televisivo italiano capofila del racconto criminale spendibile sui mercati mondiali della tv. Segna la svolta che porta le serie a superare il cinema, inteso sia come forma d’arte sia come luogo di fruizione.
“Vita da Carlo” – già su Prime per 10 episodi – è stato invece accolto da analisi critiche contraddittorie. Guia Soncini su “L’Inkiesta” scrive: «Il problema della serie è Carlo Verdone (…). La sciatteria del racconto è fastidiosa». Emanuele Rauco ne “Il Sussidiario” annota: «Quello che non funziona è la comicità, il modo piatto in cui le idee progrediscono e diventano gag». Così i giudizi negativi, che fanno il paio con quello positivo e un po’ fuori luogo di Fabio Fazio. In una puntata di “Che tempo che fa” ha definito “Vita da Carlo” una serie in cui si ride dalla prima all’ultima puntata. In realtà fanno ridere le scene interpretate dal caratterista Stefano Ambrogi nel ruolo del produttore cinematografico e l’episodio di Verdone che esce da una farmacia e va a sbattere contro una vetrata, citazione della comicità antica e sempre attuale di Stanlio e Ollio.
Da anni l’attore romano si chiede se debba o meno abbandonare le sue leggendarie maschere comiche per seguire questa nuova strada che al cinema l’ha portato a fare l’ottimo “Si vive una volta sola” e ora in tv una serie in cui la comicità assume un ruolo più defilato. Qui a guidarlo è quello spirito filosofico celebrato tanti anni fa dallo psichiatra scozzese Ronald Laing che, nel libro “L’io diviso”, racconta l’uomo visto attraverso l’alienazione della personalità sdoppiata. Verdone trova la risposta a questo bivio. La si coglie nell’ultima inquadratura della decima e conclusiva puntata quando l’attore si chiede: «Chi devo essere io? Sono quello che sono e voglio fare quello che mi va di fare». La profondità dell’artista e dell’uomo trionfa sull’ombra ingombrante dei suoi dubbi, sulla sterilità delle critiche.
Di Fabio Santini
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