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testimonianza da bucha

Scappare è impossibile

Denis, un ragazzo di Bucha, ci ha raccontato l’allucinante viaggio della sua famiglia per scappare dall’aggressione delle truppe russe. Ad oggi la moglie e le figlie non possono ancora tornare in città.
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Scappare è impossibile

Denis, un ragazzo di Bucha, ci ha raccontato l’allucinante viaggio della sua famiglia per scappare dall’aggressione delle truppe russe. Ad oggi la moglie e le figlie non possono ancora tornare in città.
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Scappare è impossibile

Denis, un ragazzo di Bucha, ci ha raccontato l’allucinante viaggio della sua famiglia per scappare dall’aggressione delle truppe russe. Ad oggi la moglie e le figlie non possono ancora tornare in città.
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Denis, un ragazzo di Bucha, ci ha raccontato l’allucinante viaggio della sua famiglia per scappare dall’aggressione delle truppe russe. Ad oggi la moglie e le figlie non possono ancora tornare in città.
Non si può immaginare la guerra senza averla mai vissuta. Si può, però, ascoltare la voce di chi vive la minaccia dell’aggressore in prima persona al punto di dover abbandonare la propria casa per trarre in salvo sé stesso e i propri cari. Tra questi c’è Denis che vive(va) insieme alla moglie e alle loro due figlie nella martoriata città di Bucha, dove le truppe russe, prima di ritirarsi, hanno strappato la vita di 360 civili. Raggiunto al telefono grazie a una professionista ucraina da anni in Italia e oggi impegnata nell’aiuto ai profughi di guerra, Denis ci ha descritto – un fiume di rabbia e paura – l’allucinante viaggio della sua famiglia per sottrarsi all’accerchiamento nemico. «Non ricordo quando abbiamo iniziato a lasciare Bucha: dall’inizio dell’invasione i giorni sono tutti uguali» racconta. «I russi sono entrati dalla via principale, quella ripresa dai droni e ormai famosa in tutto il mondo, e da lì sono riusciti subito a occupare l’intera città. La casa dove ci siamo rifugiati insieme a mia suocera e alcuni amici era nel mezzo dei combattimenti. Ci è stato subito chiaro che non potevamo più restare lì. Abbiamo cercato di raggiungere l’unico ponte ancora agibile a Bucha, ma quando siamo arrivati ne era rimasta solo una piccola striscia. Da una parte avevamo i militari russi, dall’altra un’ambulanza che portava i feriti all’ospedale di Kiev. Non si passava e il nostro piano andava cambiato subito». Sperando di trovare un nuovo rifugio, Denis e i suoi compagni si sono allora messi in moto verso Irpin, senza immaginare di finire in un altro orrore. «Tutte le case erano semidistrutte, c’erano proiettili ovunque. Abbiamo cercato di raggiungere i due corridoi di uscita, ma al primo checkpoint ci hanno detto di cambiare direzione: in quella strada erano state attaccate già troppe macchine dei civili». Anche scappare era diventato impossibile, Denis e la sua famiglia si sono sentiti con le spalle al muro. Sembra incredibile, ma tornare nell’inferno di Bucha era ormai l’unica via praticabile. «Anche lì abbiamo trovato le nostre case occupate, c’erano militari ovunque» ricorda. «So che la propaganda di Putin fa il suo corso, ma ho visto da che lato venivano esplosi i proiettili ed era la parte dove c’erano i soldati russi». A quel punto ennesimo dietrofront, ancora verso Irpin. Immaginate queste famiglie: anziani, donne, uomini e bambini ridotti a formiche impazzite. Finite in un’immensa trappola che fino al giorno prima chiamavano casa. «Su indicazione di un volontario, ci siamo rifugiati nella stanza sotterranea di un ospedale che stava già accogliendo 60 ucraini. Pochi giorni dopo un altro volontario ci ha detto che stavano organizzando dei gruppi per lasciare la città. Noi però non siamo partiti subito e a questo dobbiamo la nostra vita: nel primo giorno di evacuazione i russi avrebbero ucciso più di 50 persone». Oggi Denis è tornato a Bucha, da solo. La città non è ancora abbastanza sicura per la sua famiglia. In queste settimane ha visto con i suoi occhi l’orrore e il sangue, eppure non ha dubbi sull’esito del conflitto: «Non permetteremo a Putin di vincere questa guerra. Ogni soldato ucraino equivale a trenta soldati russi, perché loro sono demotivati mentre noi abbiamo la più grande spinta: salvare il nostro futuro e la nostra libertà». di Giovanni Palmisano

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