Ne scriviamo dalla terrazza dell’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, cuore da 90 anni della Mostra internazionale del cinema. Un luogo che apprezzò il suo genio, probabilmente senza comprenderlo fino in fondo. Non è solo una questione di premi, per carità, ma che l’unico Leone d’Oro a uno dei più grandi registi di ogni epoca sia stato assegnato “alla carriera” si commenta da sé.

Non se ne sarà crucciato più di tanto l’uomo che portò il cinema in una dimensione del tutto sconosciuta prima di lui. L’unico interprete della settima arte realmente capace di dare sostanza ai sogni su uno schermo. Non attraverso esercizi stilistici che altri hanno tentato anche con successo ma proiettando lo spettatore in una dimensione onirica, nella visione dei sogni e della realtà secondo Federico Fellini. Pensandoci ancora oggi, un esercizio di complessità estrema: raffigurare in modo poetico, struggente, divertente, surreale – eppure in qualche modo credibile – un mondo che era solo nella sua testa. Prima di lui un’interpretazione così non c’era mai stata e non c’è stata dopo, rendendolo un maestro ben oltre la dimensione dello stesso mito.

L’Italia gli deve moltissimo, perché il regista riminese ha dato di tutti noi l’immagine più bella e geniale che si potesse sperare. Insieme a una generazione di cineasti forse irripetibile – Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Sergio Leone, Michelangelo Antonioni e sicuramente stiamo facendo torto a molti – insegnammo cinema al mondo per vent’anni. Un’eredità esaltante e al contempo difficilissima. Per raccoglierla e adattarla alla realtà e alla poetica del Terzo millennio abbiamo bisogno di riscoprire noi stessi, la voglia di stupire. La voglia di non seguire la strada tracciata da altri e di vivere fino in fondo i nostri sogni.