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Superare i fallimenti del reddito di cittadinanza e dei navigator

Il frutto degli errori commessi

Superare i fallimenti del reddito di cittadinanza e dei navigator

Il frutto degli errori commessi

Superare i fallimenti del reddito di cittadinanza e dei navigator

Il frutto degli errori commessi
Il frutto degli errori commessi
Sul reddito di cittadinanza si è espresso anche il presidente del Consiglio Mario Draghi, che dice di condividerne in pieno il «concetto alla base» e che è presto per dire se sarà riformato. Ma qual è questo concetto alla base? Anzitutto, già nel 2016 Beppe Grillo ripeteva che nella società del futuro tutti devono avere diritto a un reddito universale. E poi: chi vuole lavora, chi non vuole non lavora. Ai suoi albori, quindi, il reddito di cittadinanza non era né uno strumento di contrasto alla povertà né un ammortizzatore sociale. Quando poi è stato attuato (2019), è stato disegnato come uno strumento di politica del lavoro: la sua erogazione è stata vincolata alla collocazione/ricollocazione delle persone. Tanto che è stata istituita la figura del navigator, ovvero di colui che supporta il disoccupato/inoccupato nel trovare lavoro. Oggi è del tutto chiaro, anche in seguito al recente rapporto Inps, che il reddito di cittadinanza non è né ciò che diceva Grillo – la società da lui immaginata è, in realtà, una società che non ha alcun futuro – né uno strumento di politica del lavoro: si tratta, invece, un dispositivo di contrasto alla povertà. La misura ha infatti raggiunto quasi 1,6 milioni di nuclei familiari per un totale di 3,7 milioni di beneficiari. Al di là di aspetti legati a chi ha un lavoro in nero e a coloro che appartengono a circuiti legati alla criminalità organizzata, limitiamoci in primis a questo dato: soltanto 40mila percettori hanno trovato lavoro (circa l’1%). Che il fallimento della misura così congegnata fosse annunciato era cosa nota anche ai suoi sostenitori. L’Italia sconta infatti una debolezza storica nelle politiche del lavoro: si tenga anche conto che vi è ora un’Agenzia nazionale (l’Anpal), sebbene le sue deleghe continuino a restare in capo alle Regioni; ed è questo, naturalmente, un problema da risolvere. In secondo luogo, nel nostro Paese vi sono tassi di lavoro sommerso che non hanno eguali nelle economie avanzate: circa 4 milioni di persone lavorano in nero, più del 10% della popolazione attiva (ci riferiamo alla fascia 15-64 anni, al netto di studenti e pensionati), e molti di loro sono percettori del reddito di cittadinanza. Quest’ultimo ha svolto una funzione importante in questa fase di emergenza sanitaria ed economico-sociale: la platea è stata sempre più allargata e ciò ha contribuito a contrastare la povertà. Questo è certamente l’aspetto che anche Mario Draghi trova condivisibile. Si tratta naturalmente di un compito importante, in tutti i Paesi avanzati vi sono strumenti che hanno queste caratteristiche. Il punto è che svolgono prevalentemente funzioni di sostegno al reddito, non sono invero sganciati dalla mobilità occupazionale. Anche in Italia, il reddito di cittadinanza deve diventare uno strumento di politica attiva del lavoro. È pur vero, però, che è tutto l’impianto delle politiche attive ad aver bisogno di una riforma. Direttore di Think-industry 4.0    

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