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Perché Israele non cede sul Corridoio Filadelfia

Sul Corridoio Filadelfia nessun passo indietro da parte di Tel Aviv. Lo ha ribadito il premier Benjamin Netanyahu in conferenza stampa. Parla Claudio Bertolotti, direttore di “Start InSight” 

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Sul Corridoio Filadelfia nessun passo indietro da parte di Tel Aviv. Lo ha ribadito il premier Benjamin Netanyahu in conferenza stampa, sottolineando quanto sia cruciale per la sicurezza di Israele. Chiamato dai palestinesi Corridoio di Salahuddin, è una sottile striscia di terra lunga 14 km e larga 100 metri fra il deserto di Gaza e quello del Sinai in Egitto. Risale al 1979, quando era parte dell’accordo di pace tra Israele e l’Egitto stesso, ma oggi la sua importanza non si limita alla porzione ‘visibile’: «Il Corridoio ha due dimensioni. Quella superficiale, che consente il libero transito di uomini, mezzi e materiali di rifornimento per Hamas e la popolazione palestinese; e quella sotterranea, meno nota ma più cruciale» spiega Claudio Bertolotti, direttore di “Start InSight” e autore di “Gaza Underground”, docente di Analisi d’area per i corsi di alta formazione sulla Nato presso l’Istituto di studi politici internazionali (Ispi) e sul terrorismo alla Società italiana per l’organizzazione internazionale (Sioi).

«Storicamente quell’area è caratterizzata da tunnel sotterranei utilizzati fin dagli anni Ottanta per il contrabbando di beni e materiali di consumo per la popolazione di Gaza, gestiti inizialmente dai clan e poi da Hamas. Ora i tunnel sono diventati vie di transito ‘sicure’ per l’ingresso di armi ed equipaggiamenti militari» spiega Bertolotti. Durante la presidenza egiziana di Morsi questi flussi erano di fatto tollerati, ma con l’arrivo di al Sisi «il controllo è diventato un obiettivo centrale per le forze di polizia e l’esercito del Cairo. Oggi è chiaro che per Israele prenderne il controllo e avere la capacità di identificare ciò che vi passa è l’unico modo di portare a zero la capacità di rifornimento di Hamas o le possibilità di fuga di alcuni soggetti» chiarisce l’analista.

La fermezza di Netanyahu è però stata criticata dal presidente americano Joe Biden, che lo ha accusato di non fare abbastanza per un accordo che fermi la guerra a Gaza: «La posizione di Biden è comprensibile, in un periodo di campagna elettorale. La candidata democratica Kamala Harris ha ribadito di recente il sostegno a Israele, ma ha anche bisogno del voto degli arabi americani. È chiaro però che un ritiro incondizionato di Israele dalla Striscia è inaccettabile per Tel Aviv. È plausibile quindi che Netanyahu tiri per le lunghe il negoziato fino al voto di novembre negli Stati Uniti e all’insediamento del nuovo presidente, che auspicabilmente per lui potrebbe essere Trump, meno favorevole a un approccio ‘morbido’ con Hamas e più attento a una soluzione negoziale soddisfacente per Israele» ragiona Bertolotti.

Anche in caso di vittoria di Kamala Harris è però difficile pensare a un ritorno a una situazione pre 7 ottobre 2023: «Israele avrebbe accettato un’interruzione dell’attività operativa a Khan Yunis e un ritiro parziale da Gaza a fronte di un primo rilascio di prigionieri, per poi proseguire per gradi. Ma se nella bozza mediata dagli Usa era previsto un effettivo disimpegno di Israele, è anche vero che si indicava una transizione politica che avrebbe escluso Hamas dal controllo di Gaza» osserva Bertolotti. «Invece l’organizzazione terroristica stava prendendo accordi con tutte le fazioni politiche, compresa l’Autorità nazionale palestinese, per compartecipare a un futuro governo della Striscia nel post ritiro israeliano. Una situazione inaccettabile per Tel Aviv, che spiega l’impasse attuale» conclude Bertolotti.

di Eleonora Lorusso

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