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Fingere di stare bene fa male, parla Danila De Stefano ceo di Unobravo

Tra stigma ancora radicato, cambiamenti generazionali e di genere, nuove sfide. Intervista a Danila De Stefano, ceo e fondatrice di Unobravo

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C’è qualcosa che si sta muovendo nella società italiana. Ce lo racconta la prima edizione del MINDex – Il Barometro del benessere mentale degli italiani, presentato da Unobravo, piattaforma leader in Italia per il supporto psicologico online. Una fotografia nitida e per certi versi spiazzante del nostro rapporto con la salute mentale: tra stigma ancora radicato, cambiamenti generazionali e di genere, nuove sfide che attraversano la quotidianità di milioni di persone. «La salute mentale non è un’opinione, è una realtà scientifica. Eppure ancora oggi molte persone devono fingere di stare bene per sentirsi accettate» ha dichiarato Danila De Stefano, ceo e fondatrice di Unobravo.

I dati parlano chiaro: l’81% degli italiani considera ancora il disagio psicologico un segno di fragilità. Ma per la prima volta gli uomini sembrano più ottimisti delle donne sulla possibilità di parlare apertamente di salute mentale (19% contro 13%), segno che il machismo culturale sta lentamente lasciando spazio a una nuova sensibilità. «L’uomo oggi viene incoraggiato a mostrare la sua vulnerabilità, mentre la donna si trova nel mezzo di una rivoluzione non sempre sostenibile» spiega De Stefano a “La Ragione”. «La cultura della performance la spinge a fare tutto, sempre e senza sbagliare. Questo genera pressione, solitudine, ansia». Quella che potremmo definire una ‘superdonna postmoderna’, carica di aspettative, è la controfigura contemporanea del superuomo del primo Novecento.

Ma a quale prezzo? Emerge infatti un dato preoccupante, ovvero che le donne sono le più propense a indossare una maschera emotiva: il 48% ha sentito frasi come «Tutti hanno dei problemi, affrontali», contro il 38% degli uomini. Soltanto il 21% delle donne riesce a mettere al primo posto la propria salute mentale, contro il 12% degli uomini. «Il punto è che oggi le donne devono dimostrare di essere capaci, indipendenti, forti. Ma anche disponibili, empatiche, accudenti. È una contraddizione che mina la nostra autostima» sottolinea De Stefano. «Il gender gap passa anche da qui: fingere di stare bene è spesso un adattamento alla cultura della prestazione».

L’altra grande questione è generazionale. I giovani, in particolare quelli tra i 18 e i 29 anni, risultano i più fragili: il 38% di loro finge di stare bene più volte a settimana, il 20% lo fa ogni giorno. Simulare sui social di essere felici è diventata una prassi ma, a forza di scrollare, ci si dimentica come ci si sente davvero: «Stiamo allenando il nostro cervello a stare su contenuti da 5 secondi e poi a passare oltre. Questo riduce la nostra soglia d’attenzione e ci allontana dalla profondità delle emozioni. È fondamentale introdurre la psicoeducazione nelle scuole: i ragazzi devono imparare a interpretare correttamente ciò che vedono online e a riconoscere i segnali del proprio disagio emotivo. Altrimenti rischiano una dissociazione emotiva» avverte De Stefano.

Secondo Valeria Fiorenza Perris, direttrice clinica di Unobravo, «la pandemia è stata uno spartiacque: ha legittimato socialmente la richiesta di aiuto. La terapia online ha aumentato l’accessibilità e abbattuto le resistenze. L’“effetto schermo” rende più facile aprirsi ed è stato trasformativo». Oggi oltre il 71% degli psicologi segnala un aumento stabile delle richieste post lockdown, eppure il costo resta un ostacolo per il 57% degli italiani. Per questo De Stefano lancia un appello alle istituzioni: «Serve un dialogo più strutturato tra pubblico e privato. Stiamo pensando a una fondazione che possa lavorare a progetti non profit, con il supporto dello Stato. Parlare di salute mentale non è una provocazione, è una necessità».

Infine una curiosità: il 52% dei giovani ritiene che l’intelligenza artificiale potrà avere un impatto positivo sulla cura del benessere psicologico. «Stanno già usando strumenti non nati per la salute mentale, come ChatGpt. È un fenomeno che merita attenzione. L’AI potrebbe ampliare l’accesso, è vero. Ma servono cautela, formazione e supervisione» conclude De Stefano.

di Renata Sortino

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