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Gaza, la partita si gioca anche alla Casa Bianca

Intervista a Eric Salerno, giornalista e scrittore, autore anche per “La Voce di New York”, sulla situazione a Gaza e il ruolo USA

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La questione mediorientale e le elezioni presidenziali americane sono sempre più legate a doppio filo. La guerra a Gaza potrebbe diventare un tema scottante nel nuovo dibattito tv, questa volta fra Donald Trump e Kamala Harris e già alla convention democratica a Chicago sono andate in scena le proteste dei cosiddetti uncommitted pro Palestine, il popolo del voto ‘non schierato’, cioè non vincolato al partito. Si è trattato soprattutto di palestino-americani, come la loro leader Layla Elabed, sorella minore di Rashida Tlaib: la prima donna di religione islamica a essere stata eletta al Congresso statunitense per il distretto del Michigan, nel 2019. Agli uncommitted di Chicago non è stato permesso di salire sul palco della convention, ma la loro voce si è sentita fuori dall’arena. E ora che la situazione in Medio Oriente è così delicata, il loro appoggio alla candidata potrebbe diventare decisivo. Non a caso minacciano di non votare Harris se non deciderà di pronunciarsi con una posizione netta sulla guerra a Gaza, prendendo le distanze da Israele. Per questo l’escalation delle ultime ore in Medio Oriente pesa sulla campagna elettorale, a cui però è legata a doppio filo anche la possibilità di raggiungere un accordo su una tregua.

«Gli attacchi delle ultime ore e giorni erano ampiamente previsti, ma credo che sia un gioco delle parti: nessuno vuole realmente un’escalation che porti a una guerra regionale o anche di dimensioni potenzialmente maggiori» commenta Eric Salerno, giornalista e scrittore, autore anche per “La Voce di New York”. Da profondo conoscitore degli Usa e del Medio Oriente, oggi spiega: «La partita mediorientale si gioca anche alla Casa Bianca. Finora Joe Biden ha difeso Israele, non si è spinto oltre la minaccia di un ritiro delle forniture di armi e questo è un altro dei motivi per cui i negoziati per la pace procedono a rilento. Di fatto al momento questa situazione consente a Israele di rafforzare la propria posizione, con l’obiettivo non nascosto di arrivare all’eliminazione di Yahya Sinwar. D’altra parte entrambi i candidati alla presidenza, sia Trump che Harris, hanno interesse a continuare a garantirsi il voto del popolo ebraico americano e, ancor di più, il loro appoggio nei media e fra l’opinione pubblica, oltreché come sostenitori economici». La posta in gioco è alta: «Il margine che divide i due candidati è molto risicato e oggi l’America non è più quella di qualche anno fa, è profondamente divisa» aggiunge Salerno.

Intanto Israele e Hamas hanno rifiutato il compromesso al centro delle discussioni al Cairo, condotte soprattutto dai rappresentanti dei servizi segreti: «Questo non dovrebbe stupire più di tanto. Quando si tratta di ostaggi e di trattative su una guerra, viene sempre inviata l’intelligence: lo ha fatto in passato anche l’Italia, magari affiancando il personale diplomatico, ma lo fa da sempre Israele. Il fatto che la mediazione non sia riuscita lascerebbe comunque pensare che il vero obiettivo di Tel Aviv non sia un ritorno a una situazione precedente a quella del 7 ottobre, bensì un ridimensionamento della presenza palestinese nella Striscia» osserva il giornalista. «È difficile capire cosa potrebbe succedere, ma in ogni caso credo che nessuna previsione sia possibile prima del voto americano del 5 novembre. Harris ha ribadito il suo impegno per la soluzione dei due Stati, ma anche per Trump la questione è delicata: un conto è spostare l’Ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, come avvenuto sotto la sua presidenza, un altro è imbarcarsi in un conflitto di lungo periodo che potenzialmente potrebbe voler dire inviare giovani americani in Medio Oriente, mettendoli a rischio della vita».

di Eleonora Lorusso

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