Hamas-Israele, il rischio di una guerra mai vista prima
L’analista Giuseppe Dentice del Ce.S.I. Centro Studi Internazionali, spiega cosa c’è di nuovo in questo nuovo scontro tra i miliziani e Tel Aviv
Se i leader mondiali e istituzioni come Onu e Nato non hanno esitato a condannare l’attacco terroristico di Hamas contro Israele, il Governo di Tel Aviv ha dichiarato lo stato di guerra. Una guerra che però rischia di essere diversa e ancora più lacerante di quelle del passato. Non è la prima volta, infatti, che «Hamas e lo Jihad islamico palestinese attacca Israele, che finora ha sempre risposto con bombardamenti aerei. Ma a partire dal 2021 si sono aggiunti incidenti anche a Gerusalemme e nelle cosiddette città miste arabo-israeliane. Da questo scontro, sempre più acceso, si è sviluppata e sedimentata questa nuova guerra, che rischia di essere definitivamente diversa e più pericolosa rispetto alle altre», spiega Giuseppe Dentice, analista del Centro Studi Internazionali Ce.S.I., responsabile del desk MENA, Medio Oriente e Nord Africa.
La conferma arriva dalle parole del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha lanciato la controffensiva Spade di Ferro, dichiarando: «Non è solo un’operazione, è proprio una guerra“. Poi ha esortato gli israeliani a essere “uniti per vincere questa guerra», dicendo “i nemici pagheranno un prezzo elevato».
Il vice capo di Hamas, Saleh al-Arouri, ha dichiarato ad Al Jazeera che il gruppo è pronto allo «scenario peggiore», senza escludere una «invasione di terra israeliana», sostenendo di essere convinto che proprio Tel Aviv avrebbe pianificato un attacco via terra alla Striscia di Gaza e alla Cisgiordania.
«Il rischio c’è. Se si arrivasse a un’operazione di terra è innegabile che si rischierebbe un allargamento del conflitto nei territori, ma anche nelle vicinanze, come il Libano meridionale dove Hezbollah è un attore molto forte. Qui ci sono anche alcuni gruppi palestinesi, presenti nei campi profughi, che hanno ancora una grossa capacità di ricostituirsi e che negli ultimi mesi hanno minacciato Israele – prosegue Dentice – Un’azione di terra comporta rischi notevoli che devono essere valutati attentamente anche da Israele. Ripeto, a mio avviso questa non è una guerra come le altre. La speranza è che possa rientrare, ma se i toni sono quelli emersi finora l’intenzione sembra essere quella di andare a un muro contro muro. Se così fosse dobbiamo preoccuparci e non escludere il peggio».
In questa situazione si moltiplicano gli appelli alla calma e le esortazioni a deporre le armi da parte della comunità internazionale, con l’Onu che parla di «Precipizio pericoloso» e ha convocato l’Assemblea Generale. Il presidente palestinese, Abu Mazen, ha avuto un colloquio telefonico con il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, ma ha sottolineato che «l’ingiustizia verso i palestinesi è la causa del conflitto». «Abu Mazen si è trovato nella condizione di dover appoggiare la strategia di Hamas. Non perché condivida qualcosa con Hamas, ma perché ha paura di vedersi sempre più delegittimato. Da questo punto di vista Hamas ha tentato un’operazione che ha anche come scopo quello di ergersi come ultimo e unico tutore della lotta di resistenza palestinese contro Israele. Abu Mazen, che è in posizione di debolezza assoluta, ha cercato di non rimanere isolato e, paradossalmente, sullo stesso piano di Israele», chiarisce Dentice.
A preoccupare, però, sono anche le possibili conseguenze nell’area, a partire dalla normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita. «Non è un caso che questa situazione possa avere un’incidenza più ampia. Tra gli attori che ‘tifano’ per un congelamento c’è l’Iran che notoriamente appoggia le azioni dello Jihad islamico palestinese, e in passato ha fornito finanziamenti e supporto allo stesso Hamas. Evidentemente c’è un interesse diretto o indiretto da parte di Teheran, che comunque si è sempre dichiarato contrario a una normalizzazione dei rapporti tra i paesi arabi e Israele, ancor di più nel caso dell’Arabia Saudita, che è un paese leader nel mondo arabo e musulmano», spiega l’analista.
Nel frattempo la chiamata all’unità, da parte di Netanyahu, pare avere trovato una risposta: «Per il 6 ottobre era prevista una nuova protesta a Tel Aviv e in altre città, che è stata cancellata in solidarietà nei confronti della nazione, non del Governo in sé. Netanyahu, quindi, si trova a poter ricompattare le fila. È innegabile che fosse in posizione di debolezza e che lo sia ancora, però, paradossalmente la guerra potrebbe giocare a suo favore, come del resto è sempre accaduto anche in altri Paesi: uno scontro contro un nemico esterno rafforza i premier in condizioni di difficoltà interna. Per Netanyahu questa guerra potrebbe avere un risvolto favorevole da un punto di vista puramente politico», conclude l’analista del Ce.S.I.
di Eleonora Lorusso
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