“Con l’attacco agli Houthi si rischia circolo vizioso”, parla Andrea Dessì
Da un lato la diplomazia, con la quarta girandola di incontri in Medio Oriente del segretario di Stato americano, Antony Blinken; dall’altro il ricorso al bombardamento agli Houthi yemeniti da parte proprio di Usa e Regno Unito. «L’estensione del conflitto nell’area è molto più che un rischio, che preoccupa l’amministrazione Biden. Oggi il confine tra Libano e Israele, con gli omicidi mirati di commander di Hamas ed Hezbollah da parte di Tel Aviv, resta la zona più delicata perché lascia immaginare future ritorsioni. Ma quanto accaduto l’altra notte in Yemen è altrettanto preoccupante perché ci si attende una risposta degli Houthi che porterebbe a un circolo vizioso di attacco e contrattacco», risponde Andrea Dessì, Assistant Professor in Relazioni internazionali e Politiche globali presso l’American University of Rome e analista dell’Istituto Affari Internazionali (IAI). Il timore è che si commetta un «errore di calcolo, che potrebbe portare a ripercussioni anche gravi a livello regionale e persino internazionale, per il coinvolgimento diretto di Usa e Gb – osserva Dessì – La stessa Italia è presente nel Mar Rosso, con due navi militari, nonostante l’Europa abbia voluto agire in modo indipendente e separato rispetto all’America, per non essere trascinata in un conflitto più ampio e diretto nello Yemen, e in generale in Medio Oriente», spiega Dessì.
Nella capitale yemenita Sanaa si sono già registrate proteste, con bandiere americane, britanniche e israeliane date alle fiamme, proprio mentre Tel Aviv respinge le accuse di genocidio mosse dal Sudafrica presso la Corte di Giustizia dell’Onu all’Aja, parlando di «mondo alla rovescia». «L’istanza del governo di Pretoria è un tentativo ulteriore ed estremo di mettere pressione a Israele perché sospenda le azioni militari. Ma difficilmente ci sarà un impatto diretto: Israele intende proseguire l’offensiva nel 2024 e prima che si arrivi a una decisione della Corte passeranno settimane o mesi. D’altro canto l’Onu è in stallo anche a causa del veto Usa a una risoluzione – prosegue Dessì – nonostante Washington dietro le quinte eserciti forti pressioni su Tel Aviv affinché passi a una fase meno intensa di bombardamenti». È la cosiddetta fase 3, «che però difficilmente minimizzerà le vittime. Secondo organizzazioni come Oxfam, questo conflitto ha già prodotto il maggior numero di morti civili del XXI secolo con una media di 250 palestinesi che perdono la vita ogni giorno», prosegue Dessì.
«Sconfiggere un’ideologia come Hamas è molto difficile perché è profondamente radicata nella popolazione e nel territorio. Gli Stati Uniti dovrebbero saperlo e ricordare la lezione dell’Afghanistan con i talebani, dove non sono bastati 20 anni di guerra. Lo stesso vale per il Libano: ad ogni tentativo di sradicare Hezbollah, segue una maggior decisione a proseguire nella resistenza», sottolinea l’analista IAI. La strada verso la pacificazione, dunque, è difficile: «Sul cosiddetto day after resta anche qualche differenza di vedute tra Usa e Israele, con Washington decisa a lasciare che Gaza rimanga territorio palestinese, magari rivitalizzando l’Autorità Nazionale Palestinese. Ma senza un cessate il fuoco non è possibile passare a una fase di negoziato e diplomazia», conclude Dessì.
di Eleonora Lorusso
La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
-
Tag: esteri, intervista