app-menu Social mobile

Skip to main content
Scarica e leggi gratis su app
Antonio Faraò

Antonio Faraò: “I social? Utili, ma inaccettabile che il valore di un artista venga ridotto a un numero”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Antonio Faraò, pianista jazz di fama internazionale, in occasione dell’uscita del suo disco natalizio “Christmas Time”

|

Antonio Faraò: “I social? Utili, ma inaccettabile che il valore di un artista venga ridotto a un numero”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Antonio Faraò, pianista jazz di fama internazionale, in occasione dell’uscita del suo disco natalizio “Christmas Time”

|

Antonio Faraò: “I social? Utili, ma inaccettabile che il valore di un artista venga ridotto a un numero”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Antonio Faraò, pianista jazz di fama internazionale, in occasione dell’uscita del suo disco natalizio “Christmas Time”

|
|

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Antonio Faraò, pianista jazz di fama internazionale, in occasione dell’uscita del suo disco natalizio “Christmas Time”

Antonio Faraò, pianista romano di straordinaria abilità e creatività, è uno dei più apprezzati interpreti jazz sulla scena internazionale, con una carriera che supera i 40 anni. Vincitore del prestigioso primo premio al “Martial Solal International Jazz Piano Competition” di Parigi, ha collaborato con artisti leggendari come Joe Lovano, Wayne Shorter, Al Jarreau, Marcus Miller e Jack DeJohnette.

Attualmente, è parte del progetto “McCoy Tyner Legends”, un omaggio al celebre pianista, e ha partecipato all’UNESCO All Star Global Concert in diverse edizioni (2015, 2018 e 2024), esibendosi con icone del jazz come Herbie Hancock e Branford Marsalis.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui partendo dal suo ultimo lavoro in studio dedicato alle canzoni natalizie “Christmas Time”, a cui ha lavorato insieme a Mario Rosini, per poi toccare diversi argomenti, tra cui lo stato di salute della musica jazz in Italia

Com’è nata l’idea di lavorare a un disco natalizio?

Il progetto è nato un po’ per caso, da un arrangiamento di Jingle Bells che avevo fatto per gioco. Quel giorno mi sono detto: “Chissà, magari un domani mi piacerebbe realizzare un disco dedicato ai brani natalizi”. Per me la tradizione e la famiglia hanno un grande valore, anche perché sono credente.

Poi è arrivata la proposta di Azzurra Music come etichetta discografica, e finalmente sono riuscito a concretizzare questa idea. Ho avuto il piacere di realizzare il progetto con Mario Rosini, con cui mi conosco da molti anni. Da tempo volevamo collaborare, e questa occasione si è presentata nel momento giusto. Così siamo riusciti a creare questo CD, un progetto che sento davvero speciale.

Devo dire che sono cresciuto con questi brani natalizi, che ascoltavo spesso in famiglia quando ero piccolo. Queste canzoni mi sono rimaste nel cuore, fanno parte di me. La scelta dei brani per questo progetto, quindi, è stata ispirata proprio dai ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza.

Hai scelto di restare abbastanza fedele negli arrangiamenti, lasciando che trasparisse il tuo tocco

Ho preferito mantenere una struttura tradizionale, suonandoli però a modo mio, con il mio stile, che penso faccia un po’ la differenza. Insomma, il mio modo di suonare è ciò che li caratterizza maggiormente.

Un’eccezione è stata Jingle Bells, che ho arrangiato personalmente, e un altro brano in cui è stato coinvolto Mario Rosini. Lui canta una ninna nanna tradizionale napoletana di Natale, e l’ha arrangiata interamente. Io ho contribuito solo alla primissima parte, sugli accordi iniziali. Il risultato è davvero molto bello, e sono felice del lavoro fatto.

Per quanto riguarda gli altri brani, li ho suonati in modo molto personale, senza stravolgerne l’anima tradizionale. Più che negli arrangiamenti, credo che sia la personalità dell’artista a emergere in queste esecuzioni, mantenendo però l’aspetto autentico e tradizionale della musica natalizia.

Il disco è impreziosito dall’inedito “Christmas Time“, che gli dà anche il nome. Ci racconti com’è nato?

L’inedito è nato in modo particolare, inizialmente senza un legame diretto con il Natale. L’ho scritto durante un soundcheck con Ben Olson, mentre eravamo in Svizzera. Ricordo che il batterista, Everett, ascoltando il brano, esclamò: “Caspita, questo brano è pazzesco, bellissimo!”. Da quel momento, però, non accadde più nulla, e il pezzo è rimasto nel cassetto per diversi anni.

In passato ho fatto un paio di tentativi per pubblicarlo, ma non ero mai del tutto soddisfatto. Questa volta, però, è andata diversamente, e ho capito che il brano si presta perfettamente al Natale, perché ha un’anima gospel. Per questo ho chiesto a Mario di scrivere un testo che lo rendesse un brano gospel natalizio. Così è diventato, a tutti gli effetti, un pezzo di Natale.

Parlando più di te, come mai hai scelto di abbracciare la musica jazz?

Sono cresciuto in un ambiente dove questa musica era una presenza costante. Non è scontato che un bambino riesca ad assimilare o apprezzare un genere musicale, ma nel mio caso è stato naturale. Sin da piccolo, avevo un grande interesse per questa musica, che mi affascinava profondamente. Ricordo che nel 1971, quando avevo sei anni, i miei genitori mi portarono al Teatro Lirico di Milano per assistere a un concerto della big band di Count Basie ed Ella Fitzgerald: fu un’esperienza memorabile

Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia appassionata di musica. Mio padre, ex batterista jazz, suonava nelle big band e aveva iniziato la sua carriera a Pola. La sua passione per questa musica influenzò molto il mio percorso. In casa si ascoltavano sempre artisti come Benny Goodman e Teddy Wilson, che piano piano sono diventati parte integrante del mio mondo musicale.

Naturalmente, c’era anche una passione personale che ho coltivato e sviluppato nel tempo. Questa musica non è stata solo un interesse: è diventata la mia vita.

Quanto hai rubacchiato dai musicisti con cui hai diviso il palco lungo la tua carriera? Alcuni sono letteralmente dei giganti

Rubare non è il termine giusto, diciamo “prendere ispirazione”. Quando insegno ai miei allievi, specialmente nei workshop, cerco di spiegare che la musica va assimilata, non copiata o rubata. Nel corso degli anni ho assimilato diversi stili, ma la cosa fondamentale è sempre mantenere la propria personalità. È su quella che bisogna lavorare, perché altrimenti rischi di diventare la brutta copia di qualcun altro. Mi capita spesso di ascoltare musicisti e pensare: “Sì, ma vorrei sentire qualcosa che venga davvero da loro”. Se ti limiti a imitare qualcuno, che sia Chick Corea o altri grandi, non basta. Non è sufficiente.

Ho avuto la fortuna di condividere il palco con giganti come Benny, che mi ha invitato diverse volte all’International Jazz Festival. Quest’anno, per esempio, ero in Marocco, a Tangeri, dove ho suonato con Richard Bona e con un quintetto. Queste sono esperienze che nascono da occasioni uniche, come quando un musicista americano passa e magari si ferma in un locale dove suoni, come accadeva nei tempi passati, per esempio al “Capolinea”. Quella era un’opportunità: se ti notavano, poteva capitare che ti invitassero a suonare con loro.

Qual è, secondo te, lo stato di salute della musica jazz in Italia oggi?

Oggi, purtroppo, manca un po’ questa atmosfera di incontri dal vivo. C’è sicuramente un fermento nelle associazioni dove i giovani suonano, ma il live, il contatto diretto, sta scomparendo. Una volta ti chiamavano per suonare in una jam session, e magari il musicista ti ascoltava e ti diceva: “Ti voglio sul palco con me”. Oggi, questa dinamica si è un po’ persa.

Ultimamente noto che si stanno ricreando dei circuiti culturali dedicati ai giovani, come associazioni e centri culturali. A Milano, ad esempio, mi è capitato di essere invitato a un evento in un locale chiamato “La Corte dei Miracoli”, dove ho visto molti giovani suonare e ascoltare musica. È un segnale positivo. Certo, ci sono ancora locali storici, ma manca quel fermento che c’era negli anni ’80, quando posti come Le Scimmie, il Capolinea, il Grillo Parlante animavano la scena musicale.

Oggi esistono nuove realtà, come alcune associazioni culturali e altri locali di cui mi sfugge il nome al momento. Tuttavia, non hanno lo stesso impatto di quei tempi. Detto ciò, sono rimasto piacevolmente sorpreso nel vedere tanti giovani interessati a questa musica. In Italia, purtroppo, l’età media degli ascoltatori di jazz si aggira intorno ai 50 anni o più. La situazione è diversa in altri Paesi: ad esempio, quest’estate, durante un concerto in Bulgaria, ho suonato davanti a un pubblico di 10.000 persone, per lo più giovani tra i 20 e i 30 anni. In quei contesti, il jazz sembra essere più radicato tra le nuove generazioni.

Credo che sia importante aiutare i giovani ad avvicinarsi a questa musica, anche rendendola più accessibile economicamente. Non tutti possono permettersi biglietti da 30 euro per un concerto jazz. Sarebbe utile adottare politiche che favoriscano prezzi più contenuti, permettendo ai giovani di scoprire e apprezzare questo genere musicale.

Cosa pensi del ruolo che i social si sono ritagliati negli ultimi anni nel processo che porta gli artisti a incontrare nuovo pubblico?

Oggi i social media rappresentano un’arma a doppio taglio. Per esempio, un artista viene spesso giudicato in base al numero di follower che ha e questo, a mio avviso, è un segnale di degrado totale. Pensa ai grandi musicisti jazz storici, che magari hanno pochissimi follower sulle piattaforme, ma hanno scritto pagine fondamentali della storia della musica. Trovo inaccettabile che il valore di un artista venga ridotto a un mero dato numerico. Dovremmo invece utilizzare i social per promuovere artisti che, pur non avendo grandi numeri, rappresentano veri e propri pilastri del jazz e della musica in generale. Questa discrepanza crea in me un certo conflitto.

Detto ciò, non nego che internet abbia i suoi lati positivi, soprattutto per la promozione e la diffusione della musica. È uno strumento utile, ma va usato con discernimento e senza perdere di vista ciò che conta davvero: la qualità e il valore artistico.

Se i media tradizionali facessero di più, forse, questo genere avrebbe anche modo di intercettare nuovo pubblico…

Certo, se i media, e le radio in particolare, continuano a privilegiare un certo tipo di musica, è ovvio che il jazz rimarrà sempre in fondo alla lista. Penso ad esempio alla Francia, dove frequento spesso da diversi anni: lì c’è una cultura musicale completamente diversa, molto più internazionale. Può capitarti di entrare in un supermercato e invece di sentire il cantante commerciale del momento, magari ascolti Billie Holiday. Questo fa già una grande differenza nell’ascolto e nella comunicazione musicale.

In Francia, per esempio, esistono radio dedicate al jazz, e questa è una realtà che in Italia manca. Per far conoscere davvero questa musica, è necessario che venga promossa anche dai media. Se non c’è un supporto concreto da parte loro, diventa davvero difficile per il jazz emergere come dovrebbe.

Per fortuna qualche esempio esiste, penso a “Via Dei Matti n°0” di Bollani. Certo, è un po’ poco…

Per quanto riguarda Bollani, lo rispetto molto come collega e apprezzo il suo talento. Tuttavia, personalmente non lo considero un jazzista al 100%, ma questa è solo una mia opinione tecnica. Detto ciò, gli faccio comunque i complimenti, perché riesce a suonare qualsiasi cosa e si distingue anche come presentatore eccellente. Il problema, però, è il modo in cui si approccia al jazz. A volte lo vedo troppo incline a un atteggiamento scherzoso, come se fosse una sorta di intrattenimento. Ma il jazz è una musica che va rispettata, presa sul serio e vissuta anche in modo spirituale.

Lo stesso discorso vale per la musica classica, dove c’è un rigore che, a mio avviso, andrebbe mantenuto anche nel jazz. È fondamentale rispettare la musica che si suona e, soprattutto, chi la suona. Certo, ci sono anche persone con il potere di diffondere questo messaggio, ma poi fanno altro, cercando di metterci sempre un tocco di leggerezza, come per esempio ha fatto Arbore con i suoi programmi sul jazz. Questi programmi erano belli, ma sempre con un approccio scherzoso.

Comunque, questa è la mia visione. Per me, la musica è una questione molto spirituale.

di Federico Arduini

La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!

Leggi anche

I martiri della Siria, parla il giornalista Hamadi

19 Dicembre 2024
Per lo scrittore, il martirio della Siria è incarnato da chi è sopravvissuto alle carceri. Due i…

“Non è un gioco da ragazzi”, parla il game designer Luca Borsa

17 Dicembre 2024
Qual è la ricetta del gioco perfetto? Ed esiste il gioco perfetto? La risposta è sì. Luca Borsa,…

Sofia Goggia: “Torno da un infortunio che è stato emotivamente e fisicamente pesantissimo” – IL VIDEO

09 Dicembre 2024
Le principali dichiarazioni di Sofia Goggia. Dopo il terribile infortunio dello scorso febbraio,…

Stefano Esposito: «Basterebbe una sola norma: il magistrato che sbaglia, paga»

06 Dicembre 2024
L’ex senatore Pd Esposito è stato per sette anni al centro di un processo poi rivelatosi infonda…

Iscriviti alla newsletter de
La Ragione

Il meglio della settimana, scelto dalla redazione: articoli, video e podcast per rimanere sempre informato.

    LEGGI GRATIS La Ragione

    GUARDA i nostri video

    ASCOLTA i nostri podcast

    REGISTRATI / ACCEDI