Carlo Boccadoro a Pianocity Milano: “La curiosità è una bussola: chi non la coltiva rischia di accontentarsi”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Carlo Boccadoro, che si esibirà nel contesto di Piano City Milano il 25 maggio eseguendo “Underwater” di Ludovico Einaudi

Carlo Boccadoro a Pianocity Milano: “La curiosità è una bussola: chi non la coltiva rischia di accontentarsi”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Carlo Boccadoro, che si esibirà nel contesto di Piano City Milano il 25 maggio eseguendo “Underwater” di Ludovico Einaudi
Carlo Boccadoro a Pianocity Milano: “La curiosità è una bussola: chi non la coltiva rischia di accontentarsi”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Carlo Boccadoro, che si esibirà nel contesto di Piano City Milano il 25 maggio eseguendo “Underwater” di Ludovico Einaudi
Da oggi venerdì 23 maggio parte a Milano Pianocity, il festival che fa risuonare la musica del pianoforte in ogni angolo del capoluogo lombardo con oltre 250 concerti fino a domenica 25.
E proprio la mattina del 25 maggio all’ADI Design Museo Carlo Boccadoro suonerà i brani dell’album “Underwater” di Ludovico Einaudi. Un’occasione per scambiare quattro chiacchiere con lui su questa scelta e sulla sua carriera. Carlo Boccadoro è un compositore, direttore d’orchestra e musicista italiano diplomato in Pianoforte e Strumenti a Percussione presso il Conservatorio G. Verdi di Milano, dove ha studiato anche composizione con vari maestri e improvvisazione jazz con Giorgio Gaslini. La sua musica è eseguita in importanti teatri e festival in Italia e all’estero, come la Scala di Milano, la Biennale di Venezia, il Concertgebouw e il Festival di Lucerna. Il suo vasto catalogo comprende opere orchestrali, cameristiche e per il teatro di prosa. Artista versatile, ha collaborato con figure di spicco della musica e dello spettacolo, tra cui Riccardo Chailly, Franco Battiato e Claudio Bisio.
Come mai la scelta di questo disco di Einaudi per questo concerto?
Ho iniziato a suonare questo ciclo di Ludovico più di un anno fa, aggiungendo man mano alcuni brani: prima due, poi tre, e più recentemente ho fatto una selezione anche a Parigi. Mi piace molto. L’ha scritto durante il lockdown ed è molto diverso dalle sue composizioni più famose: sono pezzi intimi, delicati, che lui stesso ha suonato su un vecchio pianoforte, non proprio perfetto, proprio per mantenere quel senso di intimità tra chi scrive, chi suona e chi ascolta.
Intendo proporlo ancora in futuro, per intero. Questa sarà la prima volta che lo eseguirò nella sua totalità, circa cinquanta minuti di musica, e sono molto curioso di farlo in un luogo così speciale come quel bellissimo museo del design.
Ci sono stato molti anni fa, poi per tanto tempo non ho più partecipato. Ora mi piaceva l’idea di rimettermi in gioco, di testare la tenuta di questo ciclo davanti al pubblico. Sono molto curioso di vedere com’è l’accoglienza, come reagiranno, e come andrà.
La musica di Ludovico ha già un suo pubblico, ma forse la cosa più interessante è che spesso viene eseguita proprio da lui. La gente la conosce soprattutto nella sua interpretazione. Non sono molti i pianisti, nemmeno tra gli studenti di conservatorio, che la suonano in concerto. La musica di Ludovico infatti non è molto diffusa tra altri musicisti nei concerti.
Nel mio caso, pur essendo un frequentatore della musica contemporanea, suonare questo repertorio è ancora qualcosa di un po’ più raro e particolare. Mi piace molto farlo, perché chi conosce questi pezzi suonati da Ludovico potrà sentire un’interpretazione diversa. Credo che la sua musica si presti a molteplici interpretazioni e non sia affatto unidimensionale, come spesso sostengono i suoi critici.

Un festival come Pianocity può essere l’occasione per rompere qualche barriera e avvicinare il pubblico più mainstream anche a forme di musica che non siano necessariamente la classica forma canzone
La musica strumentale in Italia rimane sempre un fenomeno di nicchia, soprattutto perché non ci sono testi, né un frontman o una rockstar che attragga il grande pubblico. Anche se molti musicisti sono famosissimi, il pubblico resta più ristretto rispetto a quello generalista, che spesso ha bisogno di testi e di figure carismatiche.
In particolare, questa musica è molto delicata, raccolta, e non ha nulla di spettacolare o appariscente. Richiede un impegno da parte di chi ascolta: bisogna mettersi in ascolto dei dettagli, immergersi in un’atmosfera diversa da quella frenetica in cui viviamo, dove siamo bombardati da migliaia di stimoli contemporaneamente. Questo tipo di musica ti costringe a rallentare, a cambiare il tuo tempo interiore.
Naturalmente, questo riduce il numero di persone disposte a farlo, ma c’è comunque un pubblico sufficiente interessato a staccare un po’ dal ritmo frenetico della vita quotidiana.
Nella tua carriera hai spaziato veramente tantissimo tra generi diversi, senza porti alcun tipo di confine. Forse il fatto di esser diplomato anche in percussioni ha aiutato
Ho iniziato ascoltando musica non classica; la musica classica è arrivata molto dopo. Prima ascoltavo rock, poi jazz, e infine la classica. Ho sempre avuto una sorta di gerarchia in cui la musica classica rappresenta per me qualcosa di importante, ma questo non significa che le altre non abbiano valore: per me la qualità della musica è indipendente dal genere e mi muovo liberamente tra tutti questi mondi.
Ho collaborato con artisti provenienti da ambiti molto diversi: rock, jazz, musica classica d’avanguardia… Il filo rosso della mia attività è la curiosità. Questo si riflette anche nelle altre cose che faccio: scrivo libri, conduco programmi radio, dirigo orchestre e porto avanti progetti imprenditoriali in campi molto diversi, perché sono sempre attratto da esperienze nuove e insolite, perfino dal calcio.
Per me il ritmo è sempre stato una parte fondamentale del mio lavoro. Spesso inizio a scrivere combinazioni ritmiche prima ancora di avere le note melodiche o l’armonia. Prima incastro tutti i ritmi tra loro, e solo dopo aggiungo le note e l’armonia. Quindi il ritmo è senz’altro l’elemento più importante per me, anche se ultimamente la mia musica ha preso una direzione un po’ diversa.
Specialmente nei lavori che scrivevo quando avevo trent’anni ci sono combinazioni ritmiche ancora oggi piuttosto complesse da eseguire. All’epoca ero davvero interessato a esplorare ritmi e tradizioni etniche diverse e questo si riflette nella difficoltà di quei passaggi.
C’è stato un altro periodo in cui, invece, ho scritto musica jazz integrando parti scritte con momenti di improvvisazione, lavorando con musicisti che da un lato leggevano lo spartito in modo preciso, dall’altro avevano la libertà di esprimersi liberamente. Altri brani, al contrario, sono stati composti interamente, soprattutto quelli per orchestra, in un ambito più classico. Ho anche scritto musica per il teatro utilizzando campionamenti elettronici: per me tutti questi mezzi sono strumenti utili, e se un mezzo funziona per raggiungere il risultato che voglio in quel momento, perché non usarlo?

Non tutti i musicisti hanno la tua apertura mentale…
Spesso si dice che i musicisti classici siano chiusi, ma io ho scoperto una realtà diversa. Nel mondo del rock e del cantautorato, ho notato che spesso sono proprio i musicisti classici a essere più curiosi verso ciò che è diverso da loro, più di quanto accada nel senso opposto.
Ho visto molti musicisti pop e rock che invece portavano in scena solo quello che già conoscevano, senza aprirsi a nuove esperienze o influenze. Pensavo che la chiusura fosse tipica dell’ambiente accademico, ma spesso mi sono trovato di fronte a un muro, non dalla mia parte, ma proprio da parte degli altri. È una cosa piuttosto singolare.
Quali sono le collaborazioni a cui sei più legato?
Con Moni Ovadia per vent’anni abbiamo suonato completamente improvvisando: non sapevamo nemmeno cosa avremmo fatto una volta saliti sul palco. Lui mi diceva solo il titolo di una canzone e la mia parte cambiava completamente ogni sera. Abbiamo fatto decine e decine di serate senza sapere esattamente come sarebbe andata avanti la performance. Eppure, siamo andati avanti così per molto tempo.
Un altro ricordo a cui sono legato è quello con Franco Battiato. Ho diretto la sua ultima opera, Telesio, poi ho suonato in un suo album e avevamo in programma di dirigere un’altra opera che però non ha mai scritto a causa della malattia. È stata un’esperienza intensa, anche se di breve durata.
Lo stesso vale per Luciano Berio, che ho avuto la fortuna di conoscere negli ultimi anni della sua vita. Sono stati musicisti molto diversi tra loro, ma con entrambi ho instaurato rapporti di amicizia molto forti e intensi
Devo dire che non ho ricordi negativi di collaborazioni, né situazioni in cui ho detto “non ci lavoro più insieme”. Magari abbiamo fatto un solo progetto e poi non abbiamo più collaborato, ma non per questioni personali o litigi. Non mi è mai capitato di avere discussioni accese o di “sbattere la porta”.
Tutte le mie collaborazioni sono sempre state molto positive, anche dal punto di vista personale. Naturalmente capita che, muovendosi in ambiti diversi, le strade si separino semplicemente perché non si hanno più occasioni di lavorare insieme. Però sono rimasto amico di molte persone con cui non collaboro più, mantenendo sempre buoni rapporti.
Tu sei anche direttore d’orchestra, una figura che troppo spesso viene sottovalutata nella narrazione che si fa della musica
È un po’ come fare il coordinatore: sei lì per collaborare con i musicisti e per creare insieme qualcosa di bello e significativo. È un lavoro faticoso, ma molto gratificante, perché davanti a te hai decine di persone diverse, con gusti e caratteri differenti e il tuo compito è unificare tutto questo per realizzare qualcosa di interessante.
Il lavoro è impegnativo, ma quando ci riesci la soddisfazione è continua, perché sei riuscito a mettere d’accordo tante teste. Spesso i musicisti con cui hai a che fare hanno suonato quel pezzo per decine di anni, quindi hanno le loro idee su come va eseguito. Se devi cambiare il loro approccio o convincerli a fare diversamente, devi essere molto chiaro e paziente. Ti dicono: “Cosa vuoi da me? Lo faccio così da trent’anni!” E allora devi spiegare perché secondo te un’altra interpretazione può funzionare meglio. Se ci riesci davvero, è una grande soddisfazione.
Un consiglio per chi volesse provare a seguire le tue orme?
Oggi tutto è a disposizione online, si può ascoltare praticamente qualsiasi cosa si voglia. Da un lato questo può essere un problema, perché crea confusione; dall’altro, offre una libertà enorme che trent’anni fa, quando io studiavo, non c’era. Ora abbiamo tutto a portata di mano, e proprio per questo diventa difficile scegliere.
Questa è la vera sfida: decidere come affrontare questa mole infinita di contenuti senza esserne travolti. Io direi di cominciare sempre con quello che ti piace, ma da lì non fermarsi mai: è fondamentale restare curiosi, anche verso ciò che a prima vista sembra non piacerti.
Per me, il vero interesse sta proprio nell’esplorare. La curiosità è la bussola che guida l’ascolto. Chi non la coltiva rischia di accontentarsi solo di ciò che gli è familiare, e così si perde un’esperienza d’ascolto molto più ampia e arricchente.
di Federico Arduini
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Tag: musica
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