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Tra la Champions e la libertà, parla Michele Padovano

La vita di Michele Padovano, ex bomber della Juventus, sembrava tutta in discesa ma poi, all’improvviso, è cambiato tutto. Le sue parole

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No, non dev’essere piacevole vedersi definiti «un cancro da estirpare» sui giornali. E nemmeno sentirsi invitare da chi indossa una divisa a «ficcarti tutti i tuoi soldi» in quel posto, specie se hai le manette ai polsi senza un perché e vorresti soltanto poterti risvegliare nel tuo letto per scoprire che è stato un brutto sogno. Per questo, quando parla di quello che gli è capitato, Michele Padovano dice che «lo può capire soltanto chi ci è passato». E senza necessariamente essere stato quel che è stato lui: un bomber di razza della Juventus, con una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea e uno scudetto in bacheca. La sua sembrava una vita tutta in discesa, anche quando – con il calcio giocato ormai alle spalle – stava per cominciare una carriera da dirigente sportivo. Poi è cambiato tutto: come e perché lo ha raccontato in un libro appena uscito (“Tra la Champions e la libertà”, Cairo).

Tre mesi in carcere, altri nove agli arresti domiciliari, quattro processi e 17 anni a rosolare fra celle putride, aule giudiziarie gelide, studi legali, carte bollate e incubi: «Esattamente dieci anni prima di quella notte di maggio del 2006 quando cominciò tutto, stavo urlando e gioendo con i miei compagni durante il giro di campo all’Olimpico di Roma aggrappato alla mia Champions, stravolto dalla felicità. Se qualcuno in quel momento mi avesse detto che dieci anni dopo sarei precipitato in un pozzo nero, sarei scoppiato a ridere» ci dice. Lo arrestarono come si fa con i gangster: «Stavo tornando a casa, dopo una cena con amici, quando tre auto civetta hanno circondato la mia, agenti in borghese mi hanno scaraventato fuori e sbattuto sull’asfalto a faccia in giù». Poi la perquisizione in casa: «Mio figlio 14enne dormiva, mia moglie guardava in silenzio, intanto nove agenti rivoltarono ogni cosa per due ore. Poi mi portarono in Questura per le foto segnaletiche e di lì in carcere a Cuneo: entrai in cella che era quasi l’alba».

L’ordinanza di custodia cautelare era un tomo di 300 pagine: «Lessi “associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti” e trasecolai. Secondo gli inquirenti finanziavo un’organizzazione criminale perché avevo prestato 36mila euro a un mio amico d’infanzia che ne faceva parte. Mi aveva detto che gli sarebbero serviti per acquistare due cavalli, cosa che in effetti fece. Ma non fui creduto e mi processarono lo stesso». Del carcere ricorda la solidarietà fra detenuti: «Pensavo fossero gentili perché ero famoso, invece lo erano sul serio perché fra quelle mura funziona così. E poi avevano tutti capito subito che quello non era il mio posto». I giudici ci hanno messo molto di più: Padovano è stato condannato in primo grado (8 anni e 8 mesi) e in appello (6 anni e 8 mesi). La Cassazione ha disposto un nuovo processo che si è chiuso con un’assoluzione piena dopo 17 anni: «Senza la mia famiglia e i miei avvocati oggi non sarei qui a parlare con lei. Ho vissuto sentendo addosso il pregiudizio delle persone. Quasi tutti gli amici mi hanno voltato le spalle, salvo pochissime eccezioni fra cui quel meraviglioso ragazzo che era Gianluca Vialli».

A 57 anni suonati sente di averne 17 di meno: «Ho voglia di recuperare il tempo perduto, se avrò un’opportunità di rientrare nel mio mondo mi ci butterò con tutto me stesso». Con la saggezza di chi ha imparato una lezione fondamentale: «Non bisogna mai puntare il dito contro nessuno, neanche quando le cose sembrano chiare».

di Valentino Maimone

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