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Il Libano non è Gaza, parla Claudio Bertolotti

Lo chiarisce Claudio Bertolotti, analista dell’Istituto per gli Studi di Politica internazionale (Ispi): “Hezbollah non è il Libano e viceversa”

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Il nuovo fronte di guerra in Medio Oriente riguarda il Nord di Israele, al confine con il Libano, ma lo scenario è diverso da quello a Sud, nella Striscia di Gaza. Lo chiarisce Claudio Bertolotti, analista dell’Istituto per gli Studi di Politica internazionale (Ispi): «Intanto Hezbollah non è il Libano e viceversa. È espressione di una componente religiosa e settaria del Paese, che politicamente è all’interno del Parlamento libanese ma di fatto è legata anima e corpo all’Iran». Bertolotti spiega che Hezbollah «dipende da Teheran da un punto di vista ideologico, perché ne ha sposato l’obiettivo di egemonia regionale, ma anche per motivi economici, finanziari e militari: è la Repubblica Islamica a pagare gli stipendi dei miliziani di Hezbollah, che sono migliori rispetto a quelli dell’esercito regolare libanese (motivo per cui gli sciiti scelgono le milizie). Inoltre da Teheran arrivano armi, equipaggiamento e strutture che hanno permesso di costruire anche reti sotterranee».

Il nuovo fronte (la «nuova fase», come l’ha definita il ministro della Difesa israeliano Gallant) arriva dopo gli appelli internazionali a una de-escalation nell’area ma potrebbe giovare a tutti, come ha sottolineato di recente Gilles Kepel. L’orientalista è convinto che Benjamin Netanyahu stia oltrepassando tutte le ‘linee rosse’ perché «assumendosene la responsabilità fa il lavoro sporco al posto nostro», liberando la scena da attori come Hamas ed Hezbollah «che nessuno rimpiangerà». Secondo Kepel in questo modo si spera di spezzare “l’asse della resistenza” alimentato dall’Iran e che preoccupa anche molti Paesi arabi, che pure non hanno provato empatia nei confronti del duro attacco del 7 ottobre.

«Quel che afferma Kepel è noto, se ne parla da quasi un anno» commenta Bertolotti, che aggiunge: «Netanyahu è il soggetto designato e autodesignato per la condotta di una guerra che è coerente con la visione dottrinale e strategica di Israele. Un’escalation orizzontale era già prevista dall’Idf come scenario non auspicabile ma realistico». L’incognita resta il ruolo degli Stati Uniti: «Gli Usa fin dall’inizio avevano esortato Hezbollah a non elevare il livello di minaccia contro Israele. A oggi non c’è un intervento diretto americano, ma non è da escludere in caso di ulteriore escalation come un’invasione di terra. Le elezioni saranno decisive: la vittoria di Harris potrebbe portare a una de-escalation, per ragioni di opportunità e apertura al dialogo con l’Iran, come avvenuto fin dalla presidenza di Obama. Con Trump si tornerebbe invece a una chiusura dei canali comunicativi con Teheran. Anche lui vuole la fine della guerra, ma con Israele che ne esca rafforzato» spiega Bertolotti.

Quanto all’Iran, finora si è limitato a reazioni verbali: «Lo scenario peggiore per Tel Aviv potrebbe essere un intervento contemporaneo dei proxy iraniani e della stessa Teheran, che però non confina con Israele. Per questo il rischio potrebbe essere una minaccia aerea o via terra-aria, in modo da saturare la capacità di deterrenza di Iron Dome. Finora Teheran si è mostrata cauta anche perché militarmente è indietro di tre generazioni rispetto alle capacità aeree israeliane: rispetto ai moderni F-35, ha aerei degli anni Sessanta e Settanta. Credo che l’Iran non voglia ‘razionalmente’ una guerra e che questa sia un’ipotesi possibile solo a causa di fattori irrazionali ed emotivi» conclude l’analista.

di Eleonora Lorusso

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