L’Europa getta le basi per un ponte per Gaza
Anche l’Europa valuta aiuti umanitari per Gaza ma resta il nodo di Israele. Ne parliamo con Andrea De Guttry, docente di Public International Law
Dopo Stati Uniti anche l’Europa valuta l’ipotesi di paracadutare aiuti umanitari alla popolazione di Gaza, nonostante la mancanza di mezzi propri. Bruxelles, infatti, non ha ancora una difesa comune, men che meno gli aerei per metterla in atto.
La via più percorribile è il ponte marittimo, sondata di persona da Ursula Von der Leyen a Cipro, da dove ne ha auspicato l’avvio «quanto prima». Anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto, dopo il via libera alle missioni Aspides nel Mar Rosso e Levante in Medio Oriente, ritiene che quest’ultima «apre la possibilità di esplorare» la fornitura di aiuti umanitari dall’alto.
Ma se qualche funzionario statunitense l’ha definita «una goccia d’acqua nell’oceano» (peraltro parte del carico, secondo l’Afp, sarebbe anche finita in mare), resta il nodo dell’autorizzazione di Israele. «La situazione è molto complicata per due motivi: il diritto internazionale, in tempo di pace e di guerra, stabilisce che lo Stato che detiene il controllo di un territorio ha l’obbligo di assicurare il rispetto dei diritti umani, specie alla vita. In questo momento nella Striscia di Gaza si tratta di Israele. Se non è in grado di farlo, ha l’obbligo di chiedere assistenza ad altri Stati o organizzazioni internazionali. Questo, però, deve coniugarsi con il diritto alla sovranità, cioè ad esercitare in maniera esclusiva tutti i poteri sul proprio territorio o su quello sotto il suo controllo. La difficoltà sta nel trovare un equilibrio», osserva Andrea De Guttry, docente di Public International Law presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
«Il sorvolo a Gaza, inoltre, richiede il consenso di Tel Aviv, altrimenti potrebbe essere considerato un atto di guerra. Nel caso statunitense c’è stato sicuramente un accordo, seppure non sbandierato. È quanto accaduto anche durante la Seconda guerra mondiale con il ponte aereo per Berlino: in quel caso si atterrava in un territorio sotto controllo americano ed erano state concordate regole per consentire sorvolo di una parte della Germania all’epoca comunista. Esistono norme simili anche, ad esempio, per l’enclave russa di Kaliningrad, che consentono allo stato madre il sorvolo di aeree sottoposte ad altra giurisdizione, ma dietro precisi accordi», chiarisce l’esperto.
Per il portavoce dell’Ufficio ONU per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), Jens Laerke, gli aiuti via cielo «possono essere solo l’ultima risorsa: la consegna via terra è migliore, più efficiente e meno costosa». Un aereo, come spiegato dal presidente della Ong Refugees International Jeremy Konyndyk alla BBC, può trasportare l’equivalente del carico di due camion, ma con un costo 10 volte superiore. «Un’altra strada è seguire l’esempio della crisi del Venezuela, con la realizzazione di campi profughi oltre frontiera. È quanto ipotizzato da Israele, ma l’Egitto finora si è detta contraria, così come ha respinto la possibilità di accogliere la popolazione palestinese aprendo il valico di Rafah», ricorda de Guttry.
Bruxelles intanto ha aumentato il budget degli aiuti: durante la visita in Giordania il commissario Ue per la Gestione delle Crisi, Janez Lenarčič, ha annunciato l’esborso della prima tranche da 50 milioni per l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi. Dopo circa 40 ponti aerei con l’Egitto, L’UE vorrebbe raggiungere Gaza autonomamente, con iniziative dei Paesi membri. Come la Spagna, che ha annunciato l’invio di 110 paracadute alla Giordania perché si faccia carico direttamente della consegna di aiuti, come accaduto nei giorni scorsi col sostegno anche di altri Paesi, come Regno Unito ed Egitto.
di Eleonora Lorusso
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