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Per la pace liberarsi di Hamas, parla Hussain Abdul Hussain

Intervista a Hussain Abdul Hussain della Foundation or Defence of Democracies: “Tutti dovremmo spenderci per la pace ancor prima del diritto ad una nazione”
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Hussain Abdul Hussain è cresciuto fra il Libano e l’Iraq. Sopravvissuto a Saddam Hussein e alla guerra civile libanese, vive da vent’anni a Washington e oggi lavora per The Foundation for Defence of Democracies. In quasi trent’anni di carriera come analista della questione mediorientale è giunto alla conclusione che «tutti dovremmo spenderci per la pace ancora prima che per il diritto ad avere una nazione. Mi spiego: io vengo dal Libano, uno Stato fallito. Quando Israele ha occupato il Libano il nostro unico pensiero era liberarci degli israeliani, convinti che – sciolto questo nodo – i problemi si sarebbero risolti. Israele si è ritirato nel 2000 e la situazione è peggiorata. La tendenza a scaricare la colpa sull’Occidente o sull’imperialismo è fuorviante. Siamo chiamati in primo luogo a un lungo lavoro introspettivo». Hussain rappresenta un mondo arabo occidentalizzato. Una voce moderata che pare soffocata dalla ferocia estremista ma non lo è. Anche se vive negli Usa, è cresciuto in Medio Oriente e quando parliamo del pluralismo delle idee che contraddistingue una società individualista dice che non ci si può aspettare che il mondo arabo reagisca come un monolite: «Nei Paesi arabi esiste un pluralismo di opinioni, proprio come in Occidente». In passato pensava che la democrazia fosse l’unica via possibile. Ammette che le sue aspettative si siano ridotte ma ci tiene a indicare i suoi punti fermi: «Prima si deve costruire la capacità e poi su quella capacità cominciare a diffondere idee come libertà e democrazia: un atteggiamento che guiderebbe verso progetti di lungo respiro». Hussain scrive e diffonde spesso i suoi articoli in arabo ed è ospite frequente delle emittenti arabe. La sua non può certo definirsi una voce isolata che si nasconde. Impegnato nel dibattito, resta un personaggio molto noto in Medio Oriente: «Vengo giudicato da un’opinione pubblica piuttosto vivace: c’è chi mi considera un pericoloso sionista al soldo di Israele e altri per i quali rappresento invece la voce moderata di molti che mi seguono. Fa parte del gioco». Per Hussain organizzazioni come Hezbollah o Hamas riescono a mantenere il potere soltanto mediante la paura. Nessuno può contraddirli, c’è il rischio di venire ammazzati: «Hamas è arrivato al potere nel 2007 non con elezioni, ma con un colpo di Stato. Ha ucciso 450 uomini delle autorità palestinesi, continua a massacrare i palestinesi. Perciò non capisco coloro che invocano la pace senza condannare Hamas». La questione palestinese, come nel caso del Libano, viene sempre ritirata fuori come ostacolo a ogni accordo di pace. «A mio avviso si dovrebbe firmare prima per la pace, a prescindere, e poi trattare su alcuni punti». Ma la pace è qualcosa che si può siglare con il solo inchiostro? «Rispondo con una domanda: quanto tribali sono le dinamiche nei Paesi arabi? Nessuno pensava che Rabin e Arafat si potessero stringere la mano. Negli anni Novanta le cose andavano meglio». È vero, Gaza aveva un aeroporto, si stava per costruire persino un casinò a Gerico. Oggi Hamas chiede invece la distruzione di Israele. «Questo ha azzerato ogni possibilità di accordo. Con questa gente non si può fare niente, dobbiamo prima liberarcene». Ci si chiede se gli Stati Uniti rientreranno militarmente in Medio Oriente. «Non ce ne sarà bisogno» sostiene Hussain. «I Paesi arabi hanno imparato a far fronte alla diffusione della radicalizzazione islamica. Un modello collaudato con Bush, che servì a cacciare Al Qaeda dall’Iraq e poi ripetuto con l’Isis. Quanto alla Turchia e al Qatar, quando i nodi verranno al pettine si faranno vivi dalla parte giusta». di Verdiana Garau

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