A 100 anni dalla morte di Giovanni Verga emerge il suo lato vero
Un professore universitario di Catania, in questi giorni in libreria con una pubblicazione sul Verga, lancia una nuova tesi sul massimo rappresentante del verismo che ribalta la sua posizione nei confronti della fede
| Cultura
A 100 anni dalla morte di Giovanni Verga emerge il suo lato vero
Un professore universitario di Catania, in questi giorni in libreria con una pubblicazione sul Verga, lancia una nuova tesi sul massimo rappresentante del verismo che ribalta la sua posizione nei confronti della fede
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A 100 anni dalla morte di Giovanni Verga emerge il suo lato vero
Un professore universitario di Catania, in questi giorni in libreria con una pubblicazione sul Verga, lancia una nuova tesi sul massimo rappresentante del verismo che ribalta la sua posizione nei confronti della fede
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Un professore universitario di Catania, in questi giorni in libreria con una pubblicazione sul Verga, lancia una nuova tesi sul massimo rappresentante del verismo che ribalta la sua posizione nei confronti della fede
A 100 anni dalla sua scomparsa è ancora insaziabile la curiosità nei confronti di Giovanni Verga. Le sue lettere personali come le fotografie – sua grande passione – continuano a essere scandagliate per soddisfare una famelica ricerca, un dettaglio che possa raccontare una sfumatura inedita dell’uomo.
L’ultima rivelazione arriva da Giuseppe Savoca, professore di letteratura italiana dell’Università di Catania – città che diede i natali a Verga nel 1840 – che nel libro “Verga cristiano, dal privato al vero” stravolge la tesi secondo cui l’autore siciliano sarebbe stato un convinto ateo.
Parla invece di un Verga profondamente credente, “come si evince dalle sue raccolte epistolari”; un’interpretazione in contrapposizione con il pensiero comune che lo descrive come un uomo distaccato e materialista.
Non simpatizzava per gli ultimi, vero. Ma diceva anche che “gli ultimi non sono per forza gli umili ma i vinti”. “I Malavoglia” fu il primo romanzo di una trilogia mai finita, “Il Ciclo dei Vinti”, che rimase la sua ossessione fino alla morte.
La novella fu il genere letterario con cui riuscì meglio a esprimere questi sentimenti, in una dimensione intrisa di sofferenza e sfide personali causate da una Provvidenza miope. In questo contesto si sviluppano i suoi personaggi come “Nedda”, la raccoglitrice di olive a cui muore il figlioletto di stenti e che segna la sua svolta verista. E poi “Rosso Malpelo”, il bambino costretto a lavorare nelle cave di sabbia siciliane “di cui nemmeno la madre ricorda più il vero nome”, scritto 40 anni dopo “Oliver Twist” di Dickens ma con ambientazioni che sembrano sceneggiate secoli prima rispetto a una Londra in piena rivoluzione industriale.
Era legatissimo alla sua terra ma fu Milano a dare il giusto impulso alla sua penna grazie alle frequentazioni con gli scrittori del romanticismo lombardo e gli scapigliati, portavoce di quel naturalismo francese alla Flaubert a cui l’autore era devoto.
Con loro si perdeva in lunghe chiacchierate in due luoghi simbolo della città: il caffè Cova, nell’edificio del Teatro La Scala (oggi in via Montenapoleone) dove era di casa anche Giuseppe Verdi, e poi al ristorante Savini nella Galleria Vittorio Emanuele. Ci rimase 20 anni, poi tornò nella sua Sicilia dove però si spense il suo estro creativo. In quel periodo cambiò anche la sua linea politica. Pur non essendo mai stato un progressita, si convinse della bontà del colonialismo, mostrando persino una certa insofferenza verso la democrazia parlamentare. Le idee socialiste dei naturalisti francesi apparivano ai suoi occhi ormai lontanissime. Conservò però una certa simpatia non per gli ultimi ma per gli umili. Fino all’ultimo.
Di Ilaria Cuzzolin
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