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Borsellino, trent’anni senza pace

Il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino veniva ucciso insieme a 5 componenti della sua scorta in Via D’Amelio, a Palermo, per mano di Cosa Nostra. Trent’anni dopo c’è chi continua a lottare senza sosta per la verità: il fratello Salvatore Borsellino.
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Borsellino, trent’anni senza pace

Il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino veniva ucciso insieme a 5 componenti della sua scorta in Via D’Amelio, a Palermo, per mano di Cosa Nostra. Trent’anni dopo c’è chi continua a lottare senza sosta per la verità: il fratello Salvatore Borsellino.
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Borsellino, trent’anni senza pace

Il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino veniva ucciso insieme a 5 componenti della sua scorta in Via D’Amelio, a Palermo, per mano di Cosa Nostra. Trent’anni dopo c’è chi continua a lottare senza sosta per la verità: il fratello Salvatore Borsellino.
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Il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino veniva ucciso insieme a 5 componenti della sua scorta in Via D’Amelio, a Palermo, per mano di Cosa Nostra. Trent’anni dopo c’è chi continua a lottare senza sosta per la verità: il fratello Salvatore Borsellino.
Salvatore Borsellino sono 30 anni che non trova pace. Il peso di quel cognome, il dovere di continuare a lottare per i sogni di giustizia del fratello, accompagnano le sue giornate e con ancora maggiore forza quest’anno in cui ricorre il trentennale della morte di suo fratello, il giudice Paolo Borsellino. Lo abbiamo incontrato alla presentazione del libro di Ezio Gavazzeni “La furia degli uomini” (edito da Mursia Editore) in cui l’autore, utilizzando un taglio narrativo, ripercorre la lunga serie di omicidi e attentati di stampo mafioso che hanno segnato la storia del nostro Paese: dall’assassinio del giudice Antonio Scopelliti fino al momento della sparizione dell’agenda rossa dalla borsa di Paolo Borsellino, pochi minuti dopo l’esplosione in cui perse la vita con gran parte della sua scorta. Salvatore Borsellino, autore della prefazione, parla come se l’orologio si fosse fermato a quel 19 luglio del 1992. Trapela un dolore immutato e non scalfito dal tempo, la stessa rabbia negli occhi, lo stesso sentimento di giustizia che è proprio, evidentemente, della famiglia Borsellino. L’accento siciliano risuona ancora come una melodia antica, nonostante viva ormai a Milano da anni. Ripercorre, senza l’intenzione di celarne lo strazio, quegli attimi antecedenti alla Strage di Via D’Amelio in cui Paolo appariva consapevole di essere un ‘morto che cammina’ e con una spada di Damocle sulla testa disse alla moglie: “Quando mi uccideranno sarà stata la mafia ad uccidermi ma saranno stati altri ad aver voluto la mia morte”. Tutta l’esistenza di Salvatore ruota attorno alla ricerca di un’agenda, di colore rosso vivo, che Paolo custodiva gelosamente da occhi indiscreti perché pregna, come dichiararono diversi testimoni, di verità scomode. La “scatola nera della Seconda Repubblica”, venne definita. Quell’agenda sparì poco prima della sua morte insieme alle verità custodite. In sua memoria, nacque il Movimento delle Agende Rosse che, oggi, conta più di 50 gruppi in tutta Italia col solo scopo di conoscere la verità. Non sta fermo Salvatore su quella sedia, soprattutto quando è costretto a ricordare che di quelle stragi che hanno macchiato di sangue non solo la Sicilia ma l’Italia tutta (la strage di Portella della Ginestra, la strage di Piazza Fontana, la strage del treno Italicus, solo per citarne alcune) si conoscono raramente gli esecutori, mai i mandanti e spesso neanche il movente. Di recente, una sentenza ha inferto un ulteriore colpo al sogno di verità di Salvatore. La sentenza del processo cosiddetto ‘Trattativa Stato-Mafia’ in cui vengono ammessi accordi tra le parti ma che “non costituiscono reato”. Secondo le motivazioni sarebbe stata inevitabile per fermare le stragi cosa che, fatti alla mano, non è accaduto. “Era lo scenario peggiore che mi potessi immaginare”, spiega con lo sguardo perso nel vuoto. Il suo racconto è ricco di dettagli, minuziosamente stampati in testa come un timbro, simbolo di un impegno che sfiora la comprensibile ossessione a perpetuare gli ideali del fratello giudice, definito oggi un eroe, pur odiando l’idea di essere ricordato così. I discorsi si susseguono e rimbalzano da un anno all’altro e ascoltare le sue parole è come camminare nella storia, fatta però di macerie. Infine, si lascia andare ad una confidenza intima che tocca per la sua delicatezza e crudeltà insieme: Uccidere Giovanni Falcone senza uccidere Paolo Borsellino non sarebbe servito a nulla perché Paolo, fino all’ultimo giorno della sua vita, avrebbe cercato di arrivare agli assassini di suo fratello”. Vedete, io sono suo fratello di sangue, fratello all’anagrafe, ma essere fratelli vuol dire un’altra cosa: vuol dire aver condiviso gli stessi sogni, combattuto le stesse battaglie. Quel fratello era per Paolo Giovanni e viceversa. Io quello che faccio da ormai trent’anni è cercare di meritarmi di essere chiamato fratello di Paolo Borsellino”. Il modo migliore per ricordare Paolo è provare ad essere eroi quotidiani, silenti. Proprio come suo fratello, il giudice che non conosceva la paura.   di Raffaela Mercurio

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