Cinquant’anni fa usciva “Wish You Were Here”, quando l’assenza si fece arte
Il 12 settembre 1975 sugli scaffali dei negozi britannici comparve un disco destinato a diventare un pilastro della storia del rock: “Wish You Were Here”
Cinquant’anni fa usciva “Wish You Were Here”, quando l’assenza si fece arte
Il 12 settembre 1975 sugli scaffali dei negozi britannici comparve un disco destinato a diventare un pilastro della storia del rock: “Wish You Were Here”
Cinquant’anni fa usciva “Wish You Were Here”, quando l’assenza si fece arte
Il 12 settembre 1975 sugli scaffali dei negozi britannici comparve un disco destinato a diventare un pilastro della storia del rock: “Wish You Were Here”
Il 12 settembre 1975 sugli scaffali dei negozi britannici comparve un disco destinato a diventare un pilastro della storia del rock: “Wish You Were Here”, nono album in studio dei Pink Floyd e primo lavoro dopo il clamoroso successo planetario di “The Dark Side of the Moon”. Uscì avvolto da un cellofan nero, un gesto controcorrente che lasciava intravedere soltanto un adesivo identificativo. Una scelta così insolita che alcuni rivenditori, credendo a un errore di stampa, strapparono l’involucro mostrando subito la copertina concepita da Storm Thorgerson: due uomini d’affari che si stringono la mano, uno dei quali avvolto dalle fiamme.
Era l’inizio di un racconto per immagini e suoni con al centro un tema preciso: l’assenza. L’assenza dei rapporti autentici, nella società come tra i membri della band, logorati dalle dinamiche dell’industria discografica. Ma soprattutto l’assenza di Syd Barrett, fondatore e anima originaria del gruppo, perso molto prima di quel 26 gennaio 1968 in cui i Pink Floyd semplicemente non andarono a prenderlo per il prossimo concerto, sancendone così l’uscita definitiva.
Sei anni e qualche giorno dopo, l’atmosfera nello studio di Abbey Road mentre si ‘cucinava’ questo disco non era delle più serene. Roger Waters ricorderà anni dopo che mai la band fu così vicina allo scioglimento come in quel momento. Come si fa a riprendere a vivere e a creare quando si è raggiunto l’apice, quando si è diventati ricchi e si è ancora così dannatamente giovani? Eppure da quelle tensioni e da quei dubbi nacque un’opera monumentale che seppe trasformare fragilità, smarrimento e dolore in musica. L’equilibrio precario fra Waters, Gilmour, Mason e Wright trovò un’alchemica formula magica nel bilanciamento fra tecnica, nostalgia, ironia inglese e melodia.
L’apertura e la chiusura del disco sono affidate alle due sezioni di “Shine On You Crazy Diamond”, lungo e struggente omaggio a Barrett. Quelle quattro note di chitarra di Gilmour, il cosiddetto “Syd’s Theme”, una suite che ancora oggi toglie il fiato: se non ci smuove nulla, forse è meglio farsi un controllino al cuore. E proprio dentro questo brano c’è una delle magie più spesso dimenticate dell’intero disco: il concerto pianistico di Richard Wright.
Introdotti da una sezione colorata di tonalità jazz, questi ultimi minuti dell’album sono un autentico capolavoro di malinconia: una chiusura lenta, dal sapore classicheggiante, che si affievolisce sempre di più fino a scomparire. A un attento ascolto è possibile sentire in lontananza un pezzo di “See Emily Play” di Barrett… Una perla di Wright, una dimostrazione della sua capacità di ‘dipingere’ più che di riempire con i suoni e di quanto il suo contributo silenzioso e spesso sottovalutato fosse in realtà fondamentale per i Pink Floyd.
Incorniciati da questa suite monumentale, trovano spazio tre brani che sono altrettante istantanee di denuncia e malinconia: l’alienazione della tecnologia raccontata in “Welcome to the Machine”, la satira tagliente contro il cinismo dell’industria discografica in “Have a Cigar” e la struggente title track “Wish You Were Here”, ballata che con il tempo è diventata una delle più amate di sempre. Il destino – o Dio, che forse non gioca a dadi – volle che proprio durante il missaggio del disco, il 5 giugno 1975, Syd Barrett entrasse all’improvviso in studio. Era ingrassato, irriconoscibile e i compagni impiegarono diversi minuti a riconoscerlo. Fu l’ultima volta che lo videro. Una chiusura naturale e insieme straziante di un cerchio di malinconia e sensi di colpa che continuò a riecheggiare negli anni successivi.
Cinquant’anni dopo, “Wish You Were Here” resta uno dei vertici assoluti della storia dei Pink Floyd e del rock. Un disco che seppe dare forma a un sentimento universale, trasformandolo in un’opera capace di parlare a generazioni diverse e lontane. Un album nato dalle crepe di una band, ma diventato paradossalmente una delle sue opere più coese e immortali. Un abbraccio mancato che continua a risuonare nel tempo, ricordandoci che poche cose feriscono più dell’assenza. E poche consolano quanto una canzone capace di colmarla.
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