
Corpus domini, la mostra sul potere della fisicità
Il corpo in tutte le sue forme, espressione di gioia, a volte sofferenza. A Milano, a Palazzo Reale, una mostra a tratti provocatoria per riflettere sulla potenza della fisicità umana.
Corpus domini, la mostra sul potere della fisicità
Il corpo in tutte le sue forme, espressione di gioia, a volte sofferenza. A Milano, a Palazzo Reale, una mostra a tratti provocatoria per riflettere sulla potenza della fisicità umana.
Corpus domini, la mostra sul potere della fisicità
Il corpo in tutte le sue forme, espressione di gioia, a volte sofferenza. A Milano, a Palazzo Reale, una mostra a tratti provocatoria per riflettere sulla potenza della fisicità umana.
Il corpo in tutte le sue forme, espressione di gioia, a volte sofferenza. A Milano, a Palazzo Reale, una mostra a tratti provocatoria per riflettere sulla potenza della fisicità umana.
Milano, Palazzo Reale. A fianco a Monet con le sue ninfee e agli impressionisti, un’esibizione contemporanea e dirompente: Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima.
La mostra, a cura di Francesca Alfano Miglietti, è una riflessione sulla fisicità umana e di come questa si intrecci con l’espressione artistica: 111 opere tra installazioni, sculture, disegni, dipinti, video e foto, di 34 artisti diversi provenienti da tutto il mondo.
Addentrarsi in uno spazio con un numero così alto di opere, una varietà importante di autori e riflessioni, può essere complesso. Viene in aiuto del visitatore, già nella prima sala della mostra, un documentario con le parole di Lea Vergini, critica d’arte e saggista italiana. Il suo racconto, a tratti più accademico a tratti più intimo, ripercorre l’arte dagli anni ‘70 alla contemporaneità più stretta, guidando il visitatore nel passaggio dal corpo vivo protagonista della Body Art al corpo rifatto dell’Iperrealismo. Lea Vergini è lo sguardo necessario per comprendere la mostra, il filo d’Arianna per non perdersi.
La critica d’arte ricostruisce la storia della Body Art e i suoi sviluppi: il corpo è visto e vissuto come oggetto e protagonista, al centro dell’opera artistica e del pensiero dell’autore. La Body Art è vista come un movimento liberatorio in cui le regole dell’estetica vengono sovvertite attraverso esperienze estreme, talvolta anche dolorose.
È in questo contesto che il colore viene spesso sostituito dal rosso sangue e da esibizioni che sono quasi riti spirituali; è sempre in questi anni che la sessualità e il dolore fisico, fino al masochismo, vengono messi in scena di fronte a centinaia di spettatori, ripresi, documentati.
Tra questi spicca l’artista Chris Labrooy, che in una delle sue opere si fece inchiodare come un Cristo a un maggiolino o che in un’altra decise di farsi sparare a un braccio.
“Da cosa nasceva questa necessità masochista?”, si interroga Lea Vergine nel documentario a lei dedicato.
La storica dell’arte, testimone e occhio vigile di quegli anni, risponde che “se probabilmente ci fosse stata un’atmosfera placata e satolla come quella degli anni ‘80, negli anni ‘70 non ci sarebbe stata la Body Art e il povero Ron Athey non avrebbe tirato fuori un quintale da perle dall’ano”.
In questi artisti c’è un lato performativo, esibizionistico, che la critica e saggista associa in parte a quelli di un assassino.
Nella mostra di Palazzo Reale questo lato estremo non è così esplicito. Nessun perfomer verrà colpito a un braccio da un fucile davanti agli occhi dei visitatori, ma la mostra rimane uno spazio d’indagine su questo tipo di arte e sul suo intreccio indissolubile con il corpo umano.
In una stanza vuota, ad esempio, Gino de Dominicis espone la sua risata incessante. Appena si entra viene da sorridere, da ridacchiare; è una reazione istintiva, automatica del nostro corpo, che partecipa con quello dell’artista. Ma dopo pochi secondi quella risata è disturbante, faticosa da reggere, invadente e così si fa prepotente la volontà di uscire al più presto di lì.
Il corpo, poi, non è solo mera esibizione ma anche denuncia sociale, come nelle foto di Yael Bartana, Bury our weapons, not our bodies sapientemente affiancate a un calco di pistola, opera della stessa Yael Bartana titolata R.I.P Glock.

Yael Bartana, Bury our weapons, not our bodies
Yael Bartana, R.I.P Glock
O ancora Il Muro Occidentale o del Pianto di Fabio Mauri, in cui una catasta di valigie simboleggia la vita dei migranti e le loro speranze per una nuova vita.
Il Muro Occidentale o del Pianto di Fabio Mauri
Ancora una volta violenza, sofferenza, corpo, arte, sono strettamente collegati tra loro. Un altro spunto di riflessione della mostra è dato dal ruolo dei vestiti, come l’enorme montagna nera di Christian Boltanski o l’opera di Vlassis Caniaris che fa domandare: sono sufficienti dei manichini vestiti come una persona reale per rappresentare un corpo?Christian Boltanski, La Terril Grand-Hornu

Vlassis Caniaris, Where’s North, Where’s South?
In un’epoca di sovraesposizione e rappresentazione, dove il selfie è il gesto quotidiano di conferma della propria presenza sui social e nella vita reale, ecco che anche nella mostra non può mancare l’iperrealismo, come la rappresentazione in vetro resina di esseri in tutto e per tutto uguali all’uomo: Turisti in vacanza (di Duane Hanson) ma anche uno sportivo tra il momento di riposo e dell’ esultanza (di Urs Lüthi) e infine un gigante accasciato e con una flebo, sofferente come un più classico cristo deposto (di Zarko Basheski).
Duane Hanson, Tourists II

Urs Lüthi, Low Action Game II
Zharko Basheski, Out of…
Tante ancora le opere presenti nella mostra, in una riflessione continua sul corpo, sul suo ruolo e “ingombro” nel mondo, sulle tracce fisiche e non che ciascun essere umano lascia nel mondo. di Sara ToniniLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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