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Gli italiani presi al volo
Le Frecce Tricolori ci insegnano la professionalità e la passione dei piloti, che stanno lassù perché innamorati del volo e del cielo. Non basta l’audacia, ma anche la padronanza del mezzo in ogni condizione.
| Cultura
Gli italiani presi al volo
Le Frecce Tricolori ci insegnano la professionalità e la passione dei piloti, che stanno lassù perché innamorati del volo e del cielo. Non basta l’audacia, ma anche la padronanza del mezzo in ogni condizione.
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Gli italiani presi al volo
Le Frecce Tricolori ci insegnano la professionalità e la passione dei piloti, che stanno lassù perché innamorati del volo e del cielo. Non basta l’audacia, ma anche la padronanza del mezzo in ogni condizione.
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Le Frecce Tricolori ci insegnano la professionalità e la passione dei piloti, che stanno lassù perché innamorati del volo e del cielo. Non basta l’audacia, ma anche la padronanza del mezzo in ogni condizione.
Due ‘diamanti’ sono comparsi sopra il Colle: la Patrouille de France dispiegata in formazione a 9 a ricordare la maestosa geometria sui Campi Elisi il 14 luglio e le Frecce con ‘l’uomo in più’, serrate in un disegno inequivocabile e solo all’apparenza pazzesco; dietro, le scie delle bandiere a cristallizzare nel cielo la velocità delle macchine volanti. È incredibile come la vocazione alla tecnica delle evoluzioni abbia contraddistinto l’arte del volo e del duello dai tempi di Baracca ai giorni nostri.
Dopo la Grande Guerra a Campoformido si teorizzò che se vuoi batterti bene non basta l’audacia: serve padronanza profonda del mezzo in ogni condizione, requisito principale proprio del volo acrobatico. Se ne accorsero inglesi e americani che dal 1941 sul Canale di Sicilia evitarono il dog fighting uno a uno con i nostri piloti perché tirava brutta aria, scelsero la superiorità numerica e sfruttarono la diversa qualità delle macchine.
Fecero a pezzi una aeronautica che pagava a caro prezzo le nefandezze degli interessi del complesso militar-industriale fascista perché solo a guerra inoltrata comparvero il Macchi Veltro e il Fiat G55 adeguati agli Spitfire ma in numero limitatissimo per le gelosie e le avidità dei costruttori nazionali.
Iniziammo la guerra mandando per aria i piloti coi biplani a cinque anni dall’arrivo dei primi caccia a reazione: bisognava girar commesse a Fiat, Reggiane e Macchi con grandi progettisti, pessimi motori e ancor peggiori armamenti e radio e senza una solida idea della logistica industriale poi provata dai bombardamenti. Tutti artigiani arricchiti in guerra tra di loro.
L’epopea nazionale ricorda le imprese di Balbo, noto squadrista ferrarese, e del narciso D’Annunzio su Vienna ma pochi sanno che ancora oggi nelle accademie aeronautiche del mondo si studiano la visione tecnica del colonnello Rino Fougier e ancor più le teorie sull’uso dell’arma aerea del generale Giulio Douhet.
L’aeronautica in quegli anni fu la storia del Paese: strepitose virtù individuali messe a repentaglio dalle inanità e dagli incesti pubblico-privato perché il fascismo non fece solo cose buone (!).
Dopodiché al giorno d’oggi le Frecce Tricolori ci spiegano ancora che la professionalità e non il narcisismo è la loro anima e che forse nessun pilota è per aria per fare la guerra ma sta lassù perché innamorato del volo e del cielo, incidentalmente solcato da qualche missile altrui.
di Flavio Pasotti
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