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Joseph Roth

Joseph Roth, autore e pagine che rimandano all’Ucraina

Ci sono scrittori che costruiscono la leggenda raccontando la propria vita nell’avventura e nella disavventura. Uno di questi è il galiziano Joseph Roth

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Joseph Roth, autore e pagine che rimandano all’Ucraina

Ci sono scrittori che costruiscono la leggenda raccontando la propria vita nell’avventura e nella disavventura. Uno di questi è il galiziano Joseph Roth

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Joseph Roth, autore e pagine che rimandano all’Ucraina

Ci sono scrittori che costruiscono la leggenda raccontando la propria vita nell’avventura e nella disavventura. Uno di questi è il galiziano Joseph Roth

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Ci sono scrittori che costruiscono la leggenda raccontando la propria vita nell’avventura e nella disavventura. Uno di questi è il galiziano Joseph Roth

Ci sono scrittori che costruiscono la propria leggenda raccontando la propria vita nell’avventura e nella disavventura. Uno di questi è il galiziano Joseph Roth che della perdita della patria e del finis Austriae – ossia della distruzione o, meglio, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico – ha fatto il centro della sua anima e della sua opera. Che cos’è “La leggenda del santo bevitore” (Adelphi, come tutti i titoli che qui saranno citati) se non il racconto dello stesso peregrinare di Roth e della sua santa bevuta? E cosa sono “La marcia di Radetzky” e “La Cripta dei Cappuccini” se non romanzi dove la morte dell’imperatore Francesco Giuseppe riassume in sé la fine dell’impero e la perdita della patria? La sconfitta, la perdita, l’esilio, la fine sono i sentimenti più forti che si ritrovano nelle opere di Joseph Roth che, come il santo bevitore, trova conforto e liberazione solo nella stessa fine – nella morte – come forma di ritorno all’origine del mondo perduto: «Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte tanto lieve e bella» dice il leggendario eppur realistico santo bevitore Andreas Kartak morendo in chiesa.

Leggendo le opere di questo scrittore austriaco, galiziano, ebreo, nato in periferia, in Ucraina, si può meglio comprendere il grande sacrificio che oggi, un secolo dopo la Grande guerra e la fine degli Imperi centrali e il dramma novecentesco dell’Holodomor, sta facendo il popolo ucraino nel tentativo disperato ed eroico di non perdere la patria, di non diventare un popolo sottomesso, di non essere costretto all’esilio.

L’autobiografia è la forma privilegiata della letteratura di Roth e anche del suo giornalismo. «La città dove sono nato si trova nell’Europa orientale, in una grande pianura scarsamente popolata». Inizia così un racconto uscito postumo che nell’intenzione di Roth doveva diventare «il romanzo della mia infanzia» e che immaginava come un’opera «d’ampio respiro» – come lo stesso scrittore annunciava in una lettera a Stefan Zweig – ma che, invece, rimase fra le sue carte come una piccola e preziosa novella dal titolo bello ed evocativo: “Fragole”. E se fosse questo il libro più bello di Joseph Roth? L’ultima compagna dello scrittore così credeva, forse per amore, si capisce, soprattutto per amore e tenerezza, ma forse non si sbagliava, come non si sbaglia l’amore.

In questo racconto popolato di sarti, vetrai e ciabattini – «Nella mia città natale vivevano all’incirca diecimila abitanti. Di questi, tremila erano matti anche se innocui» – la nostalgia della patria perduta, della terra natia, è ancora più forte e il sapore delle fragole di bosco sembra sentirlo anche il lettore che si ritrova insieme allo scrittore nella sua patria bella e perduta, lontana e vicina, lontana e vicina come l’infanzia di ognuno di noi. Chissà se oggi ci sono ancora le fragole a Brody ma di certo gli ucraini vogliono coglierle e gustarle nei loro boschi liberamente. I conterranei di Roth amavano la natura e i frutti che elargiva: «In autunno andavano nei campi ad arrostire le patate. In primavera giravano nei boschi a raccogliere le fragole».

di Giancristiano Desiderio

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