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La cultura si mangia eccome, purché ben cotta

Il Pnrr destina una barca di soldi alla cultura, ma in Italia la valorizzazione economica di beni culturali è una perfetta sconosciuta. C’è il rischio che si distribuiscano soldi senza trasformare il costo del patrimonio culturale in un ricavo.
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La cultura si mangia eccome, purché ben cotta

Il Pnrr destina una barca di soldi alla cultura, ma in Italia la valorizzazione economica di beni culturali è una perfetta sconosciuta. C’è il rischio che si distribuiscano soldi senza trasformare il costo del patrimonio culturale in un ricavo.
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La cultura si mangia eccome, purché ben cotta

Il Pnrr destina una barca di soldi alla cultura, ma in Italia la valorizzazione economica di beni culturali è una perfetta sconosciuta. C’è il rischio che si distribuiscano soldi senza trasformare il costo del patrimonio culturale in un ricavo.
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Il Pnrr destina una barca di soldi alla cultura, ma in Italia la valorizzazione economica di beni culturali è una perfetta sconosciuta. C’è il rischio che si distribuiscano soldi senza trasformare il costo del patrimonio culturale in un ricavo.
Il Pnrr – Piano nazionale di ripresa e resilienza, già mi gira la testa – quanti soldi destina alla cultura? Una barca. La bellezza di oltre sei miliardi e mezzo di euro. «Datemi una leva e vi solleverò il mondo» diceva Archimede; figurarsi che cosa avrebbe fatto con una tale montagna di soldi il genio del grande matematico di Siracusa. Forse, avrebbe davvero sollevato il mondo, ma sarebbe riuscito anche nella strabiliante impresa di rendere autosufficiente e produttivo l’immenso patrimonio culturale italiano? C’è da dubitarne perché la valorizzazione economica dei ‘beni culturali’ è in Italia una perfetta sconosciuta. Per capirlo ci sono due strade: girare per l’Italia, da Roma al più piccolo degli oltre ottomila Comuni, e vedere personalmente lo stato dell’arte oppure leggere il libro di Antonio Leo Tarasco: “Diritto e gestione del patrimonio culturale” (Laterza). L’ambizione di Tarasco non è inferiore a quella di Archimede: anche lui vorrebbe un punto d’appoggio e una leva per sollevare il mondo dei beni culturali d’Italia e rendere la sua gestione più simile a quanto avviene in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti dove esiste sì il controllo politico dei ‘beni culturali’ ma c’è anche la necessaria messa a reddito che fa del patrimonio culturale non un costo bensì un guadagno. Qualcosa ci dice, però, che anche Tarasco, come Archimede, avrà gratificazioni sul piano della teoria, ma sul piano della pratica, beh, il grande patrimonio culturale nazionale continuerà a essere un’occasione sprecata. «Se non conti, non sai quello di cui stai parlando»: lo diceva non Archimede ma Girolamo Caianiello, maestro di contabilità pubblica. Purtroppo, le finanze italiane non sono ispirate proprio a questo principio e, naturalmente, i ‘beni culturali’ non fanno eccezione. Un esempio tra gli infiniti che riporta Tarasco-Archimede: lo Stato italiano nel triennio 2016- 2018 ha esportato per mostre 4.003 ‘beni culturali’ per un valore assicurativo di oltre 5 miliardi di euro ma ha incassato meno della metà. I conti non tornano non solo nei prestiti per mostre ma nelle biglietterie, nelle concessioni d’uso, nei servizi aggiuntivi, nelle sponsorizzazioni, nelle donazioni, nella finanza di progetto, nell’uso dei marchi commerciali. Si tratta non solo di un cattivo affare ma di un vero e proprio peccato mortale perché portare in attivo queste attività vorrebbe dire ridurre ed eliminare il debito pubblico italiano. Purtroppo c’è il rischio che il Pnrr distribuisca soldi senza fare l’unica cosa che c’è da fare: trasformare il costo del patrimonio culturale in un ricavo.   di Giancristiano Desiderio

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