Le parole perdute
Nel 1976 un ragazzo del liceo non usava più di 1.500 vocaboli. Vent’anni dopo, nel 1996, circa 640. Oggi forse si arriva sì e no a 200. Ma come diceva Nanni Moretti “Le parole sono importanti”.
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Le parole perdute
Nel 1976 un ragazzo del liceo non usava più di 1.500 vocaboli. Vent’anni dopo, nel 1996, circa 640. Oggi forse si arriva sì e no a 200. Ma come diceva Nanni Moretti “Le parole sono importanti”.
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Nel 1976 un ragazzo del liceo non usava più di 1.500 vocaboli. Vent’anni dopo, nel 1996, circa 640. Oggi forse si arriva sì e no a 200. Ma come diceva Nanni Moretti “Le parole sono importanti”.
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Nel 1976 un ragazzo del liceo non usava più di 1.500 vocaboli. Vent’anni dopo, nel 1996, circa 640. Oggi forse si arriva sì e no a 200. Ma come diceva Nanni Moretti “Le parole sono importanti”.
«Le parole sono importanti» per Nanni Moretti e anche per Socrate, che tanto credeva alla loro forza da non sentire il bisogno di scriverle. Per Carlo Levi sono pietre, per Gino Paoli possono logorarsi nell’abuso o nell’indifferenza, come «sassi che il mare ha consumato». Modugno cantava: «Vorrei trovare parole nuove», che è poi il problema di ogni poeta. A sua volta Mina, con “Parole, parole”, non fa che citare lo Shakespeare di “Amleto”, che vaneggia in un delirio di sproloqui: «parole, parole, parole…».
In origine la parola si identifica con la cosa: il nome della rosa è la rosa stessa. Poi il vocabolo si fa sostantivo e il nome si emancipa dal fiore. Anche se Shakespeare stesso (sempre lui) ci ricorda che ciò che chiamiamo rosa avrebbe il medesimo profumo anche con altri nomi: Romeo, anzi, viene esortato a cambiare il suo. E comunque la Cosa non precede il Verbo, ma nasce con lui: «Dio disse: sia la luce! E la luce fu» (Genesi, 3). «Parola mia» equivale alla forte garanzia morale di un galantuomo: una persona, appunto, di parola. Dare, prendere o togliere la parola non sono cose da poco. Come può essere decisivo, quando sia il caso, mettere una buona parola.
Il lettore perdonerà il dotto excursus, teso a confermare che Moretti e Socrate hanno ragione, nel senso che senza parole non c’è niente: né pensiero né cultura. «Nessuno può pensare dove la parola manca» (Galimberti). Secondo un’indagine di Tullio De Mauro, nel 1976 un ragazzo del liceo non usava più di 1.500 vocaboli. Vent’anni dopo, nel 1996, circa 640. Oggi forse si arriva sì e no a 200, mentre prevale nei giovani un linguaggio elementare e basico, tra il convenzionale turpiloquio goliardico e un gergo usa e getta, tutto acronimi e anglicismi. Nella maggioranza dei diplomati e dei laureati, poi, è diffuso il cosiddetto analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di organizzare un discorso o un testo logicamente articolato e connesso, dotato di un accettabile repertorio lessicale e rispettoso di grammatica, sintassi e corretta ortografia. Verba volant: uno scempio storico.
Colpa della tecnica o dei ritmi accelerati dei tempi? Non necessariamente: si può amare Proust senza rinunciare alla comodità dei codici semplificanti della telematica. Prevale piuttosto un sospetto di ignoranza. Nei licei è ridimensionato il latino e suscita panico la prova scritta di italiano. Recentemente un ministro ha affermato che nella scuola ci vorrebbero meno guerre puniche e più tecnologia, ignorando quanta tecnologia ci fosse in quegli antichi eserciti, dalle triremi cartaginesi alle macchine d’assalto romane. Attento, signor ministro: le parole sono importanti.
Restringendo l’orizzonte culturale, l’ignoranza della lingua produce errori grossolani, come l’uso frequente negli stessi telegiornali del verbo “paventare”, che significa temere (da pavor), in luogo di “ipotizzare” o “prospettare”: così si “paventa” per domani una seduta in Parlamento, un’assemblea o qualche altra eventualità. Ulteriori insidie si paventano, o meglio si prospettano, nei superlativi con suffisso in -errimo: come miserrimo, celeberrimo, acerrimo. Qui si vorrebbe potenziare l’aggettivo con un ulteriore e improprio superlativo relativo: “il più acerrimo nemico” non è un rafforzativo ma uno sproposito, in quanto acerrimo è già superlativo di acre.
Troppi esempi si potrebbero fare. Per non parlare delle parole che si perdono: preziose, eleganti e sempre più rare. Spesso accusate d’affettazione borghese. Eppure non è la stessa cosa dire foresta o selva, triste o mesto, nascosto anziché occulto, dimenticanza anziché oblio. Torna a casa, lessico.
di Gian Luca Caffarena
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