«La mia vita da bambino non mi preparò in alcun modo al fatto che esistono cose crudeli e amare». Nella prima parte della biografia di Robert Oppenheimer, scritta da Ray Monk (già autore di quella di Wittgenstein) ed edita in Italia da Bompiani, campeggia questo virgolettato dell’uomo che diede vita alla bomba atomica e che fa subito indugiare il lettore sulle opposizioni che hanno governato la vita del fisico «in grado di capire tutto». Un’infanzia agiata la sua, devota alle buone maniere. Fu il fratello Frank a dire che in famiglia c’era «un generale sospetto di corruzione del mondo esterno»; nel focolare, invece, tutto filava ordinato.
Il filosofo e scrittore britannico ha lavorato per dieci anni a questo volume – suddiviso in quattro parti – che esplora la vita di uno degli scienziati più autorevoli del XX secolo: partendo dall’infanzia in cui affiorano i contrasti in merito alla sua identità, passando per il folgorante viaggio in New Mexico; gli studi ad Harvard e a Cambridge fino alla convivenza con i migliori fisici nucleari del mondo quando era a capo del progetto Manhattan e a tutto quello che viene dopo, impossibile da sintetizzare. Si tratta di un’esperienza prolungata e massiccia che rende gloria al miracoloso connubio che da sempre lega il cinema alla letteratura. In occasione dell’uscita nelle sale del film di Christopher Nolan “Oppenheimer”, la sinergia con l’uscita del libro che lo anticipa di poco diventa infatti una preziosa opportunità di riflessione sulla «persona più influente nello sviluppo della politica atomica dell’America». Ma commetterebbe un errore chi pensasse di trovare nel lavoro di Monk qualcosa di similare a quanto messo in scena nel capolavoro di Nolan: l’approccio non può essere quello. Il regista di “Inception”, considerato una delle cento personalità più influenti del mondo, realizza una sua personale interpretazione della vita del noto fisico. Il suo punto di vista è denso, con rotazioni e piroette temporali conturbanti e a un ritmo tachicardico fatto di dialoghi risoluti che dall’inizio alla fine cadenzano un’atmosfera trepidante.
La biografia scritta da Monk sonda invece con minuzia le zone più intime dell’uomo prima ancora che del personaggio, propone un ritratto confidenziale, rivela cosa rappresentasse il genio di “Oppie” per i pochi amici, i suoi studenti e gli altri professori (di lui Augustus Klock ha detto: «Era uno studente così brillante che nessun professore sarebbe stato abbastanza bravo da impedirgli che fosse lui a istruirlo»). Quello che si legge è il meticoloso studio di una voce, dal tono fluente e concentrato, al servizio degli avvenimenti anche più reconditi. L’operazione è mastodontica e non poteva essere altrimenti la difficile missione di comporre il puzzle di una vicenda che l’ha legata per sempre a una delle menti più avvincenti e discusse nella storia dell’umanità.
di Hilary Tiscione
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