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Il nuovo libro di Patti Smith

Patti Smith, esponente di spicco della new wave e del proto-punk, è anche poetessa e scrittrice prolifica. “A book of days” ne è l’esempio più lampante
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Il nuovo libro di Patti Smith

Patti Smith, esponente di spicco della new wave e del proto-punk, è anche poetessa e scrittrice prolifica. “A book of days” ne è l’esempio più lampante
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Il nuovo libro di Patti Smith

Patti Smith, esponente di spicco della new wave e del proto-punk, è anche poetessa e scrittrice prolifica. “A book of days” ne è l’esempio più lampante
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Patti Smith, esponente di spicco della new wave e del proto-punk, è anche poetessa e scrittrice prolifica. “A book of days” ne è l’esempio più lampante
A metà degli anni Settanta al club Other End (noto in precedenza come Bitter End) nel cuore del Greenwich Village, capitava che Bob Dylan, finito un concerto, chiedesse dal camerino «Ci sono poeti da queste parti?» e che Patti Smith, vispa e annidata chissà dove, rispondesse «Non mi piace più la poesia, la poesia fa schifo…». Ovviamente non era vero. Patti, «enigmatica sacerdotessa del rock» (secondo Claudio Fabretti), esponente di spicco della new wave e del proto-punk, è anche poetessa, drammaturga e scrittrice prolifica. Le sue liriche sono state pubblicate in Italia da Newton Compton (1979) e con il memoir “Just Kids” (Feltrinelli 2010) ha persino vinto un National Book Award nella sezione non-fiction. La poetica della cantante di “Because The Night” è impastata di un nervoso fraseggio beat (con evidenti influenze da Allen Ginsberg, Jack Kerouac e William S. Burroughs), di una febbrilità da décadence fatta di forti e contrastanti riferimenti biblici e di un immancabile dissidio esistenziale. La lunga, tormentata relazione con Robert Mapplethorpe ha traghettato la Smith, nel corso degli anni, persino verso la fotografia e la visual art, confermando appieno la sua incredibile poliedricità. “A Book of Days”, uscito lo scorso anno in America e ora proposto da Bompiani (traduzione di Tiziana Lo Porto), è l’esempio più lampante della contaminazione di generi della performer classe 1946. Nella quarta di copertina è raccontata la storia del libro, una sorta di poema social-visivo: «Da quando, nel 2018, Patti Smith ha cominciato a condividere su Instagram le proprie fotografie, ha delineato nel tempo una personalissima estetica che attinge sia al suo archivio di vecchie Polaroid, con quella loro particolare atmosfera un po’ struggente, sia alle immagini rubate con lo smartphone e il loro nitore ipertecnologico. “A Book of Days” mette insieme tutto questo e lo distilla in un racconto coerente e coinvolgente, dove tra i vari soggetti […] si stabiliscono pagina dopo pagina inaspettate e sorprendenti corrispondenze». Si tratta di allegri pranzi in compagnia, gatti abissini, stivali, talismani, la scrivania di Borges, il cappello di Ferlinghetti, il Tau di san Francesco, chitarre Mosrite, libri di Lev Tolstoj o William Blake, Sylvia Plath o Simone Weil. Si tratta, insomma, della vita quotidiana di Patti – eccentrica e ad alto voltaggio – con autentiche sorprese (tipo un rarissimo biglietto da visita di Arthur Rimbaud) e in uno stile davvero unico, riconoscibilissimo. «Trecentosessantasei modi di dire ciao». Autrice di dodici album – fra cui spicca “Horses” (1975), inserito da “Rolling Stone” nella lista dei cento dischi migliori di tutti i tempi – e di diari onirici come “Devotion” (Bompiani 2018) e “L’anno della scimmia” (Bompiani 2020), Patti Smith traccia in “A Book of Days” una mappa precisa, articolata delle sue ossessioni che pian piano ci diventano familiari, fino a scoprire quanto il suo mondo, il suo sguardo si associ, confondendosi sempre di più, al nostro. di Alberto Fraccacreta

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