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La cultura woke che fa (quasi) chiudere “Sports Illustrated”

Considerata “la Bibbia del giornalismo sportivo”, oggi la celebre “Sports Illustrated” – alla soglia del suo 70esimo anniversario – rischia di sparire, per sempre
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La cultura woke che fa (quasi) chiudere “Sports Illustrated”

Considerata “la Bibbia del giornalismo sportivo”, oggi la celebre “Sports Illustrated” – alla soglia del suo 70esimo anniversario – rischia di sparire, per sempre
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La cultura woke che fa (quasi) chiudere “Sports Illustrated”

Considerata “la Bibbia del giornalismo sportivo”, oggi la celebre “Sports Illustrated” – alla soglia del suo 70esimo anniversario – rischia di sparire, per sempre
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Considerata “la Bibbia del giornalismo sportivo”, oggi la celebre “Sports Illustrated” – alla soglia del suo 70esimo anniversario – rischia di sparire, per sempre
Era «la Bibbia del giornalismo sportivo», scrive il “New York Times”. Oggi invece, alla soglia del 70esimo anniversario, “Sports Illustratedrischia di sparire. Puf. Niente più iconiche copertineda Michael Jordan a Heidi Klumche spuntano dagli scaffali delle edicole. Niente più approfondimenti d’autore al loro interno. Nelle ultime settimane Authentic Brands Group, proprietario della prestigiosa rivista, ha infatti deciso di revocare la licenza di pubblicazione all’editore (Arena Group) in seguito a un’insolvenza di 3,75 milioni di dollari. Tradotto: “Sports Illustrated” sarà costretta al licenziamento di massa. E dei circa 100 dipendenti attuali, nel giro di tre mesi potrebbe non restarne alcuno. È il colpo di grazia su una crisi economica profonda, annunciata eppure inimmaginabile dato il peso specifico del magazine. Tiratura in collasso (da più di 3 a 1 milione di copie), circolazione diluita (settimanale, poi quindicinale, poi mensile), personale già tagliato dell’80%. Il tutto nel giro di un decennio. Alcune cause sono certamente esogene: dal tramonto del cartaceo alla fotografia banalizzata dai social. Ma altri colossi di settore resistono. Perché “Sports Illustrated” invece no? Si ringrazi la svolta perbenista, puntano il dito dall’America. Secondo il più paradigmatico dei Go woke, go broke: dopo il politicamente corretto c’è la bancarotta. Nemmeno i lettori più affezionati saranno sorpresi dalla notizia. Perché del lungimirante progetto fondato da Stuart Scheftel nel 1954, in un’epoca in cui la commistione fra sport professionistici e cultura di massa quasi non esisteva, era già rimasto ben poco. Una volta “Sports Illustrated” raccontava in esclusiva Muhammad Ali. Oggi ha perso una lettera per strada, ricorrendo all’AI (Artificial Intelligence) per riempire pagine di pochezza sotto finta firma: il trucco è stato sgamato lo scorso novembre, gettando la dirigenza nell’imbarazzo. Di pari passo, le celebri cover dei costumi da bagno che avevano lanciato generazioni di supermodelle sono scadute. Anno 2016: debuttano le indossatrici sovrappeso, all’interno di una pretestuosa campagna contro il body shaming (e pazienza se l’obesità è una malattia). Anno 2020: Valentina Sampaio è la prima transgender ad apparire su “Sports Illustrated”, «nel segno dell’uguaglianza di genere e della bellezza in ogni sua forma». Sarà, ma pecunia non olet: nel 2022 è il turno di Kim Kardashian, tipico esempio di emancipazione femminile (e infatti lì s’incazzano pure gli pseudo-progressisti). Una carrellata di caos e ineleganza, né carne né pesce, che ha ridotto la rivista all’isolamento commerciale. Secondo i piani, il testardo attivismo aziendale doveva risollevare il marchio: ha finito per distruggerlo dall’interno. Quant’è vero che le scelte editoriali di “Sports Illustrated” sono legittime. E scegliere di leggere altro lo è altrettanto. Spiace, ma neanche troppo. di Francesco Gottardi

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