La ricerca vitale di Marcel Proust
| Editoria
Il tempo non è quello meccanicamente quantificabile dell’orologio o del calendario, ma il flusso della vita intima.
La ricerca vitale di Marcel Proust
Il tempo non è quello meccanicamente quantificabile dell’orologio o del calendario, ma il flusso della vita intima.
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La ricerca vitale di Marcel Proust
Il tempo non è quello meccanicamente quantificabile dell’orologio o del calendario, ma il flusso della vita intima.
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L’incipit sembra evocare le ambiguità del dormiveglia. Lo stato vigile di Marcel si dissolve quasi subito nel sonno, ma presto l’autore si ridesta e maneggia confuso la lampada del comodino e il libro che leggeva. Non si direbbe un avvio esaltante, per una cattedrale letteraria come “La Recherche”. E infatti l’esaltazione non è certo il leitmotiv di quel lungo tempo perduto – eppure via via recuperato per il semplice fatto di venir fermato sulla carta. Il tempo, smarrito o ritrovato che sia, non è quello meccanicamente quantificabile dell’orologio o del calendario, ma il flusso della vita intima: una dimensione tutta interiore che si dilata o contrae come nella filosofia di Bergson o nella relatività di Einstein, comunque estranea all’automatico positivismo della tecnologia.
La stanza dell’hotel di Balbec si affaccia sul mare e sul cielo: e quello spazio in fermento, per il trascorrere delle ore e il calar del sole, genera lampi e colori sempre diversi, che nella camera avvolgono vetri, tendaggi e arredi; stessi oggetti ma riflessi cangianti, come nelle ninfee di Monet. Ecco un’ampolla di cristallo che si tinge di un giallo dorato. Per non parlare dei molti aromi del copriletto a fiorami. Proust dedica intere pagine anche alle minime metamorfosi che popolano il suo spazio-tempo: dove carpe diem significa in realtà “cogli la luce” dell’attimo luminoso.
L’autore scrive nel suo letto di dolori: è pallido, cagionevole, non si sente brillante. Avvolto da speciali protezioni acustiche di sughero perché non sopporta i rumori esterni, quasi confonde vita e scrittura in un quieto eroismo, insieme titanico e dimesso. La ricerca si diluisce in una meticolosa ricostruzione di vezzi, tresche e lussi di famiglie borghesi e aristocratiche, oltre a pettegolezzi, amori e tanto altro. L’infelice passione per Gilberte e poi per Albertine. Spicca su tutti l’elegante figura di Swann, dandy borghese colto e mondano. Le fanciulle in fiore sono descritte minutamente una per una: ma da lontano, con qualche melanconia. C’è poi il grande amore per la nonna, la tata e in primo luogo la madre: che languore, se manca il bacio della buonanotte!
Questo recupero del passato avviene per due vie: la memoria e i sensi. Come suoni, sapori o la precisa impronta di un profumo antico. La potenza evocativa di un semplice dolcetto intinto nel tè – quella Madeleine mai abbastanza citata – apre a sorpresa tutto un mondo di affetti e immagini, che si fa fisico con le parole e i colori: perché Proust, a suo modo, è anche pittore. Incantato da Vermeer, vede la penna come un pennello: non tecnica ma visione. Così innalza il suo «immenso edificio del ricordo».
Di Gian Luca Caffarena
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