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Montanelli e Fortemagno, scattisti dell’ironia urticante

Indro Montanelli e Mario Melloni, detto Fortebraccio: due penne sempre pronte a pungersi, anche l’uno contro l’altro, diventati amici fraterni grazie al loro comune senso del sarcasmo.
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Montanelli e Fortemagno, scattisti dell’ironia urticante

Indro Montanelli e Mario Melloni, detto Fortebraccio: due penne sempre pronte a pungersi, anche l’uno contro l’altro, diventati amici fraterni grazie al loro comune senso del sarcasmo.
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Montanelli e Fortemagno, scattisti dell’ironia urticante

Indro Montanelli e Mario Melloni, detto Fortebraccio: due penne sempre pronte a pungersi, anche l’uno contro l’altro, diventati amici fraterni grazie al loro comune senso del sarcasmo.
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Indro Montanelli e Mario Melloni, detto Fortebraccio: due penne sempre pronte a pungersi, anche l’uno contro l’altro, diventati amici fraterni grazie al loro comune senso del sarcasmo.
Se ne dissero di cotte e di crude. Montanelli e Mario Melloni, alias Fortebraccio, furono antagonisti nell’arte del corsivo, il breve pezzo che in prima pagina – per alcuni un editoriale in miniatura – condensa in poche battute la politica o la cronaca. Spesso con verve polemica, a volte con toni moraleggianti, nel loro caso con sferzante ironia. L’uno dalle colonne de “il Giornale”, l’altro de “l’Unità”, soprattutto negli anni Settanta duellarono fino all’ultima goccia d’inchiostro senza risparmiarsi affilati fendenti. Ma sempre con un’eleganza che tradiva, oltre che il loro stile, reciproca simpatia. Su fronti opposti (liberale anarcoide Montanelli, comunista con un passato di democristiano Melloni), li univa l’avversione ai conformismi e alla protervia di chi faceva cattivo uso del potere (“lorsignori”, nel gergo di Fortebraccio). Sebbene, in anni di imperante ideologia, i bersagli di regola fossero diversi, talora vittime delle loro frecce intrise di veleno finivano con l’essere i medesimi protagonisti di una politica non esemplare. Così alcuni esponenti della Dc verso cui non nutrivano simpatia. Certune loro punzecchiature si ricordano ancora. Quella di Fortebraccio a Forlani, ad esempio: «Se qualcuno non avesse avuto l’ardire di offriglielo fritto al ristorante, non avrebbe mai saputo dell’esistenza del cervello». O quella del maestro di giornalismo di Fucecchio rivolta a De Mita: «Dicono che De Mita sia un intellettuale della Magna Grecia. Io però non capisco cosa c’entri la Grecia…». Fra di loro si detestarono amabilmente. Fortebraccio definiva Montanelli «il Paolo Villaggio del “Corriere”» e, quando questi fondò “il Giornale”, lo battezzò “Il Geniale”. Montanelli rispondeva per le rime: «Fortebraccio non morde. Mordicchia. Cinguetta. Allude. Peccato: con un pizzico di talento in più poteva diventare Elsa Maxwell, la pettegola di Hollywood». Poi però prevaleva, pur nella contrapposizione ideologica, un’amicizia nata quando i due, sul finire degli anni Quaranta, si ritrovarono a fianco nel “Corriere” e che aveva le radici nel comune raffinato sarcasmo. Al punto che l’epitaffio che Melloni scrisse di volere lasciare ai posteri recitava: «Qui giace Fortebraccio che segretamente amò Indro Montanelli. Passante perdonatelo, perché non ha mai cessato di vergognarsene». Montanelli, in suo “Controcorrente” – la rubrica che tenne sul “il Giornale” e che trasferì a “la Voce” finché andò in stampa – rispose: «Purtroppo, devo avvertire Fortebraccio che anch’io ho preso le mie precauzioni scrivendo tra le mie ultime volontà quella di essere sepolto accanto a lui. E come epitaffio mi contento di questo: “Vedi lapide accanto”». Nel lasciare la vita e il giornalismo, Melloni precedette Montanelli. Si spense infatti a Milano il 29 giugno del 1989, più di dieci anni prima del rivale. A cui toccò scrivere il pezzo dell’ultimo saluto riconoscendo che «come centrometrista dei trafiletti, uno scattista come lui non lo vedremo più». di Antonino Cangemi 

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