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Renegades: Springsteen nelle librerie con Obama per parlare degli ultimi

Il libro “Renegades. Born in the USA”, scritto a quattro mani con l’ex presidente Obama, è solo l’ultimo tassello di una carriera spesa per dare voce a un’America che di voce non ne ha mai avuta.

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Renegades: Springsteen nelle librerie con Obama per parlare degli ultimi

Il libro “Renegades. Born in the USA”, scritto a quattro mani con l’ex presidente Obama, è solo l’ultimo tassello di una carriera spesa per dare voce a un’America che di voce non ne ha mai avuta.

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Renegades: Springsteen nelle librerie con Obama per parlare degli ultimi

Il libro “Renegades. Born in the USA”, scritto a quattro mani con l’ex presidente Obama, è solo l’ultimo tassello di una carriera spesa per dare voce a un’America che di voce non ne ha mai avuta.

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Il libro “Renegades. Born in the USA”, scritto a quattro mani con l’ex presidente Obama, è solo l’ultimo tassello di una carriera spesa per dare voce a un’America che di voce non ne ha mai avuta.

Il volto è solcato da qualche ruga in più, ma l’animo è quello di sempre. Sembra a tratti commosso, abbassa lo sguardo Bruce Springsteen mentre parla alle telecamere di 8 e ½ , la trasmissione condotta da Lilli Gruber in cui è stato ospite insieme all’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, in occasione dell’uscita del loro libro “Renegades. Born in the USA” (Rinnegati. Nati negli USA),  la versione cartacea del loro podcast dedicato agli ultimi, che ha spopolato durante il lockdown. Il libro è una conversazione tra l’ex numero uno della Casa Bianca e la rockstar, apparentemente così diversi ma con molte cose in comune: tra aneddoti esclusivi e riflessioni sulle rispettive vite, affrontano il tema di quell’America che non trova spazio, che non ha una collocazione e non riesce a far sentire la propria voce. Per Springsteen solo un tassello in più di una carriera di oltre cinquant’anni, spesa raccontando proprio quell’America in cui aveva mosso i primi passi, in cui si era trovato a crescere.

La voce degli inascoltati

Un’infanzia passata tra un trasloco e l’altro a fianco del padre, ex veterano della Seconda guerra mondiale, trascorsa a inseguire quel lavoro che non c’era, senza riuscire a trovare il proprio posto nel mondo. Anche il giovane Bruce, che nel padre vedeva un modello, faticava ad ambientarsi in quella società spietata. Non è un caso quindi che appena iniziò a cantare lo fece proprio raccontando le vite, i sogni e dolori di tutti quegli emarginati che erano stati parte della sua quotidianità e che erano la faccia più vera e sincera del Paese. Per raccontarla serviva essere altrettanto sinceri, trovare la cifra giusta. Bruce seppe riuscirci scavando a piene mani nella tradizione della musica popolare americana – sia folk che blues, sia bianca che nera – ispirandosi a storie vere, di vita vissuta, sui giornali o nei racconti di chi gli era vicino. Un viaggio lunghissimo quello di Springsteen che nel corso degli anni, da “Born to run” a “Letter to you”, lo ha segnato nel profondo, mentre scalava e viveva un successo in cui ha sempre faticato a riconoscersi del tutto. Un viaggio che lo ha reso un simbolo, che lo ha reso “The Boss”, per milioni di fan in tutto il mondo e soprattutto per la sua America, mentre cantava all’insediamento di presidenti, o restava in un silenzio assordante nell’era Trump. E per quanto il tempo sia passato e le tematiche si siano susseguite, Il filo comune è stato e sarà sempre lo stesso: raccontare il Sogno americano, quello che può essere tale solo se non taglia fuori nessuno, quello che vale per tutti. di Federico Arduini

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