Vocabolari che accrescono la diversità
| Editoria
Da questa settimana un quotidiano italiano ha introdotto il diversity editor. Ma a che serve questa figura?

Vocabolari che accrescono la diversità
Da questa settimana un quotidiano italiano ha introdotto il diversity editor. Ma a che serve questa figura?
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Vocabolari che accrescono la diversità
Da questa settimana un quotidiano italiano ha introdotto il diversity editor. Ma a che serve questa figura?
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Da questa settimana un quotidiano italiano ha introdotto il diversity editor, che viene presentato come «una figura nuova nel panorama giornalistico, per informare in modo sempre più inclusivo, con l’obiettivo di raccontare tutt*».
La figura è importata dagli Stati Uniti e vale di diritto l’autoincoronazione a giornale che sdogana qualcosa di mai visto. Ma a che serve questa nuova figura? Che farà il diversity editor? Risponde lui stesso: «Per raccontare le differenze – dice il neoassunto – c’è bisogno di un vocabolario e di un tono appropriati». No.
Per raccontare le differenze c’è bisogno di volerle raccontare. Usare un vocabolario nuovo significa renderle ancor più diverse. Esattamente come si fa sventolando continuamente la bandiera Lgbtqia+ (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali, asessuali) e quella dei corpi non conformi. Perché etichettare sulla base dell’orientamento sessuale, scendendo addirittura nei dettagli, dovrebbe portare a un’evoluzione culturale? Perché cambiare l’alfabeto, mettere l’asterisco, dire “tutt*” e non “tutti” dovrebbe farci sentire paladini dei diritti delle persone? I giornalisti hanno davvero bisogno di una sensibilizzazione sul tema (altro ruolo del diversity editor)? Se poi serve per combattere il precariato, mi sento un po’ meglio. Ma non vorrei spuntassero correttori di bozze pagati per mettere mano ad articoli scritti in italiano, ai quali apporre la schwa. Della quale no, non abbiamo alcun bisogno.
Di Enrico Galletti
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- Tag: giornalismo, Italia
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