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Eutanasia a 23 anni: la storia (pericolosa) di Shanti De Corte

Accade in Belgio: la 23enne Shanti De Corte viene accompagnata alla morte per fuggire alla sua depressione. Una storia che apre diversi interrogativi ma, soprattutto, costituisce un precedente molto pericoloso.
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Eutanasia a 23 anni: la storia (pericolosa) di Shanti De Corte

Accade in Belgio: la 23enne Shanti De Corte viene accompagnata alla morte per fuggire alla sua depressione. Una storia che apre diversi interrogativi ma, soprattutto, costituisce un precedente molto pericoloso.
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Eutanasia a 23 anni: la storia (pericolosa) di Shanti De Corte

Accade in Belgio: la 23enne Shanti De Corte viene accompagnata alla morte per fuggire alla sua depressione. Una storia che apre diversi interrogativi ma, soprattutto, costituisce un precedente molto pericoloso.
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Accade in Belgio: la 23enne Shanti De Corte viene accompagnata alla morte per fuggire alla sua depressione. Una storia che apre diversi interrogativi ma, soprattutto, costituisce un precedente molto pericoloso.
Decidere di accompagnare alla morte una ragazza di 23 anni che non riesce più a vivere a causa della depressione. È quello che è successo in Belgio, dove Shanti De Corte è ricorsa all’eutanasia per porre fine a una vita che per lei era ormai insopportabile. Dal 2016, anno in cui fu testimone della morte di alcuni suoi compagni di scuola durante un attentato dell’Isis all’aeroporto di Bruxelles-Zaventem, la sua quotidianità era scandita da continui attacchi di panico sedati grazie a undici diversi psicofarmaci. Il Belgio è uno dei Paesi che con maggiore facilità concedono il ricorso all’eutanasia e lo dimostra proprio questo caso, in cui a essere uccisa è una ragazza non affetta da una malattia terminale o neurodegenerativa ma da quello che viene comunemente chiamato “il mal di vivere”. Per molti, una scelta compassionevole e giustificata dalla diagnosi di due neuropsichiatri che hanno ritenuto incurabile la depressione. Eppure, alla base della decisione eutanasica ci sono due princìpi: la capacità di autodeterminazione e l’impossibilità di recupero, che devono essere dimostrati al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma se le ideazioni suicidarie e i pensieri di morte sono tra i sintomi stessi della depressione, come si può considerare libera e consapevole la scelta di morire espressa da una persona malata? Non solo. La possibilità di recupero nelle patologie mentali è direttamente proporzionale alla tempestività e adeguatezza delle cure ricevute: si possono considerare adeguate delle cure psichiatriche che comportano l’assunzione di undici diversi psicofarmaci? Leggendo tra le righe si capisce che la storia di Shanti non è quella di una malattia incurabile ma di una malattia non curata adeguatamente. È la storia – molto più frequente di quanto non si pensi – di una persona che già soffriva di una o più patologie psichiatriche prima del trauma che le ha causato quei sintomi per lei insopportabili, costringendola a peregrinare tra reparti e strutture senza trovare mai qualcuno in grado di aiutarla davvero. Stiamo parlando di una ragazza di 23 anni, un’età in cui la corteccia frontale ha appena terminato di formarsi, un’età in cui si fatica a vedere la luce oltre il buio. Si può argomentare che chi ha dato il via libera per l’eutanasia abbia tenuto conto di tutti i fattori predisponenti e precipitanti, ma qui si tratta di decidere se sia plausibile concedere per legge la morte a una ragazza poco più che ventenne sulla base di una malattia di cui ancora oggi sappiamo molto poco. Per quanto ci siano studi che dimostrano l’attivazione e inattivazione di alcune aree cerebrali nelle persone affette da depressione maggiore, non ne esistono che attestino la cronicità di questa condizione e nemmeno tutte le sue implicazioni, che mutano da soggetto a soggetto. Ne consegue che la scelta di definire “cronica” la malattia sia soggettiva e opinabile, data dall’esperienza dell’operatore e dalle statistiche ma non dalla semeiotica medica. È anche una scelta che libera le istituzioni dalla responsabilità di quella mancata cura e permette loro di nascondersi dietro l’alibi della morte compassionevole, scaricandola così sulle spalle della persona malata e dei suoi famigliari. Decidere di accompagnare alla morte una giovane perché «la sua sofferenza psicologica era insopportabile» non solo costituisce un precedente pericoloso ma lancia anche un messaggio profondamente sbagliato alle nuove generazioni, che sempre di più vengono cresciute nell’incapacità di sopportare le frustrazioni e con l’idea che, quando la sofferenza è tanta, sia meglio mollare piuttosto che combattere.   di Maruska Albertazzi

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