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I medici da professionisti a impiegati
I medici di famiglia potrebbero passare dallo status di liberi professionisti a dipendenti del Servizio sanitario nazionale
I medici da professionisti a impiegati
I medici di famiglia potrebbero passare dallo status di liberi professionisti a dipendenti del Servizio sanitario nazionale
I medici da professionisti a impiegati
I medici di famiglia potrebbero passare dallo status di liberi professionisti a dipendenti del Servizio sanitario nazionale
I medici di famiglia potrebbero passare dallo status di liberi professionisti a dipendenti del Servizio sanitario nazionale
Il dibattito sulla sanità italiana è un cantiere aperto e tocca sfaccettature diverse. ‘Rinverdite’ talvolta da fatti di cronaca che sembrano rendere più o meno urgente il cambiamento di un sistema che zoppica. Si va dalla sicurezza del personale sanitario al destino di interi reparti ospedalieri, fino a liste d’attesa, medici di base e personale che scarseggia.
In queste ore il focus è sulla trasformazione significativa che, con la prossima riforma, interesserebbe i camici bianchi. I medici di famiglia potrebbero passare dallo status di liberi professionisti a dipendenti del Servizio sanitario nazionale, con contratti da 38 ore settimanali. La riforma punta a rafforzare l’assistenza territoriale e a rendere operative le 1.350 Case della Comunità finanziate con 2 miliardi di euro dal Pnrr. Non una novità (la stessa idea era stata avanzata anche dal governo precedente, ma si era conclusa in un nulla di fatto). Più che contrarie le associazioni di categoria, che parlano di un modello «non sostenibile dal punto di vista economico e funzionale».
E in effetti si è più volte parlato di come il lavoro dei medici di base sia cambiato. Di come questi ultimi siano quotidianamente alle prese con incombenze burocratiche. Alle visite, alla diagnostica, alle vaccinazioni e alla refertazione di visite specialistiche si sommano i certificati, le cartelle cliniche, la compilazione di infiniti moduli. Tutto questo per quasi 2mila pazienti, cinque giorni su sette, con giornate lavorative che arrivano anche a superare le undici, dodici ore. Uno studio di Assinform ha quantificato nel 58% la quota di tempo lavorativo dedicato dai medici di medicina generale alla gestione di burocrazia e documentazione. In altre parole, su una settimana di lavoro di (ipotizziamo) 38 ore, 23 vengono spese per attività non cliniche.
Perché, insomma, questa riorganizzazione dovrebbe cambiare le cose e non invece accentuare ancor di più gli effetti della burocrazia? Senza contare che, dopo la lunga formazione universitaria per diventare un medico, riteniamo sia legittimo dare a quest’ultimo la possibilità di avere ambizioni, distinguendosi dagli altri per come e per quanto lavora. Obiettivo vagamente impossibile da perseguire seguendo orari d’ufficio. Dietro i quali già alcuni dipendenti pubblici si nascondono ‘tirando a campare’, sicuri di non essere soggetti a particolari valutazioni di merito.
Oltretutto la transizione implicherebbe una revisione delle normative vigenti. Un passaggio o fusione tra le casse di previdenza (Enpam e Inps). E, non ultimo, un grande impegno finanziario per ferie retribuite, malattia e tredicesima. Bene le Case della Comunità, che avrebbero l’obiettivo di potenziare l’assistenza territoriale garantendo una presenza medica costante, ma siamo convinti che i medici-impiegati non sposterebbero la situazione: se un libero professionista oggi sbaglia la diagnosi di una malattia, con ogni probabilità continuerà a errare anche da dipendente pubblico. Se non può precipitarsi a casa dell’assistito perché impegnato su altri fronti, l’ammalato continuerà ad attendere. Per non dire di quei cittadini che lamentano anche solo la difficoltà di mettersi in contatto telefonicamente con i propri medici di famiglia. Che cambierebbe sapere che il camice bianco è fuori ufficio oppure in pausa caffè?
Di Enrico Galletti
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