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Heretic al cinema

Al cinema “Heretic”, con uno Hugh Grant mai visto

Al cinema “Heretic”: il nuovo film di Scott Beck e Bryan Woods, in cui i due registi giocano abilmente con un dubbio filosofico, intrecciandolo a un horror psicologico che riflette sul potere religioso e sulla manipolazione della mente umana

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Al cinema “Heretic”, con uno Hugh Grant mai visto

Al cinema “Heretic”: il nuovo film di Scott Beck e Bryan Woods, in cui i due registi giocano abilmente con un dubbio filosofico, intrecciandolo a un horror psicologico che riflette sul potere religioso e sulla manipolazione della mente umana

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Al cinema “Heretic”, con uno Hugh Grant mai visto

Al cinema “Heretic”: il nuovo film di Scott Beck e Bryan Woods, in cui i due registi giocano abilmente con un dubbio filosofico, intrecciandolo a un horror psicologico che riflette sul potere religioso e sulla manipolazione della mente umana

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Al cinema “Heretic”: il nuovo film di Scott Beck e Bryan Woods, in cui i due registi giocano abilmente con un dubbio filosofico, intrecciandolo a un horror psicologico che riflette sul potere religioso e sulla manipolazione della mente umana

Al cinema “Heretic”. Fede, controllo e libertà. Dimenticate lo Hugh Grant romantico imbranato di “Notting Hill” o “Love Actually”. In “Heretic” – il nuovo film di Scott Beck e Bryan Woods – l’attore londinese è il cattivo, un villain di rara intensità. Il suo Reed è un intellettuale cinico e calcolatore. E nella loro opera i due registi, già noti per “A Quiet Place”, giocano abilmente con un dubbio filosofico intrecciandolo a un horror psicologico che riflette sul potere religioso e sulla manipolazione della mente umana.

«Sono io, Zhuangzi, che ha sognato di essere una farfalla o sono una farfalla che sta sognando di essere Zhuangzi?». È l’antico paradosso taoista che introduce una delle domande fondamentali del film: possiamo fidarci della nostra percezione della realtà?

La trama si svolge in una casa isolata su una collina durante una nevosa notte d’inverno. Due giovani missionarie mormoni, suor Paxton (l’attrice Chloe East) e suor Barnes (interpretata da Sophie Thatcher), bussano alla porta (sbagliata) del signor Reed (Hugh Grant appunto), uomo tanto affascinante quanto sinistro che si rivela presto abile manipolatore. L’incontro, che all’inizio sembra una chiacchierata innocente sulla fede, si trasforma in un gioco psicologico fatto di inganni e tensione. La casa diventa una prigione psicologica.

La manipolazione di Reed svela un abisso profondo: la sua irriverenza è in realtà un carcere. Un uomo prigioniero di una visione estrema della libertà che si è evoluta in una forma distorta. Un sistema di controllo talmente rigoroso e implacabile da isolarsi dal mondo esterno. Il signor Reed è un uomo solo intrappolato in una gabbia di logica assoluta, cinismo e cattiveria. Paradossalmente è meno libero delle due missionarie che, dentro le rigide regole della loro fede, riescono a mantenere la loro umanità.

Visivamente, il film sa creare un’atmosfera claustrofobica e inquietante. La sceneggiatura intreccia paura, gioco e ironia. La regia di Beck e Woods sfrutta sapientemente luci fredde e cupe, piani inclinati e primi piani intensi per accentuare la tensione psicologica tra i personaggi. La casa, un rifugio apparentemente sicuro, diventa come il set di un videogame allucinante. Un labirinto mentale dove le paure si moltiplicano e la realtà inizia a perdere consistenza. La fotografia contribuisce alla sensazione di isolamento dei protagonisti. Il contrasto tra la neve che fuori cade e la tensione che all’interno cresce, accentua questo senso di prigionia mentale.

Hugh Grant dà vita a un personaggio ambiguo, affascinante e minaccioso. Rendendolo ancora più pericoloso: non si manifesta con urla o violenza, ma con un’aria di calma assoluta. Reed e le due missionarie apparentemente fragili e ingenue portano avanti una riflessione sulla fede e sul dubbio che trascende la trama horror.

Lui, con la sua convinzione che tutto sia una simulazione. Vuole sfidare le certezze delle protagoniste e dello spettatore, mettendo in discussione ogni punto di riferimento. Il dubbio che ne scaturisce non è soltanto filosofico, ma diventa un viaggio psicologico per indagare il rapporto tra immagine e realtà, fede e libertà. Se cioè sia meglio vivere in una realtà di illusioni, ma comunque umana, o affrontare la verità – per quanto crudele e dolorosa – rischiando di perdere ciò che consente a una persona di essere libera: la capacità di credere e di scegliere. Di connettersi, nelle differenze, gli uni con gli altri.

Di Edoardo Iacolucci

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