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Al cinema “The legend of Ochi” di Isaiah Saxon

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Per amare la natura bisogna aprire i sensi, non c’è niente da capire. È questo il patto sensoriale ed emotivo che “The Legend of Ochi”, opera prima di Isaiah Saxon, stringe con lo spettatore dai primi fotogrammi

Al cinema “The legend of Ochi” di Isaiah Saxon

Per amare la natura bisogna aprire i sensi, non c’è niente da capire. È questo il patto sensoriale ed emotivo che “The Legend of Ochi”, opera prima di Isaiah Saxon, stringe con lo spettatore dai primi fotogrammi

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Al cinema “The legend of Ochi” di Isaiah Saxon

Per amare la natura bisogna aprire i sensi, non c’è niente da capire. È questo il patto sensoriale ed emotivo che “The Legend of Ochi”, opera prima di Isaiah Saxon, stringe con lo spettatore dai primi fotogrammi

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Per amare la natura bisogna aprire i sensi, non c’è niente da capire. È questo il patto sensoriale ed emotivo che “The Legend of Ochi”, opera prima di Isaiah Saxon, stringe con lo spettatore dai primi fotogrammi. Una favola scura di muschio e silenzi, ambientata in un villaggio nordico sperduto, dove la comunicazione è nello sguardo, nel suono gutturale, nelle vibrazioni condivise. Qui il linguaggio cede il passo all’empatia sonora.

Nel suo impermeabile giallo – omaggio evocativo a Greta Thunberg – la protagonista Yuri (interpretata con profondità e magnetismo da Helena Zengel) è una ragazza chiusa in sé stessa. Educata da un padre guerrigliero (Willem Dafoe, straordinariamente eccentrico, tenero e disturbante) a temere gli Ochi. Creature leggendarie che abitano le foreste circostanti al calar del sole. Ma quando un cucciolo smarrito si infila nel suo zaino, Yuri sceglie l’istinto invece della paura. Fuga e missione si fondono. Restituire l’Ochi alla sua famiglia diventa quindi un viaggio di riconnessione con sé stessa, con la madre fuggita e scomparsa tempo fa (Emily Watson, una sorta di Obi-Wan pastorale) e con un mondo che le è sempre stato precluso.

Girato tra le foreste incontaminate dei Carpazi, in una Romania arcaica e fiabesca, il film firmato A24 (casa di produzione statunitense indipendente) costruisce un universo estetico che fonde Medioevo e mitologia, spiritualità e artigianato. La fotografia di Prosofsky dipinge il mondo degli uomini con colori poco intensi, rigido, fatto di divise e comandi, in opposizione a quello degli Ochi che è invece colorato, vivace, costruito con effetti pratici, pupazzi, stop-motion e matte painting (tecnica antica usata negli effetti speciali per creare scenari o paesaggi, dipingendo gli sfondi su lastre in vetro, per porle sulla pellicola) realizzati dallo stesso regista. Niente green screen fino al terzo atto: Saxon, ex videomaker di culto, crede nella magia tattile del cinema fatto a mano.

Gli Ochi comunicano con un suono che diventa musica. Fischi gutturali, canto animale, ritmi che attraversano la colonna sonora dove etnomusicologia, flauti di Pan e persino il brano “Sarà” del cantautore italiano Franco Simone convivono in un’armonia improbabile e misteriosa. Questa scelta non è un vezzo: è la chiave del film, che mette al centro una protagonista che ‘urla’ con il black metal e poi impara a ‘cantare’ senza parole con un cucciolo che ricorda E.T. a pelo lungo. La sua chiusura emotiva si dissolve nel contatto con l’alterità. È l’opposto del linguaggio convenzionale: è pura connessione.

La narrazione scorre in un registro favolistico. Il montaggio di Paul Rogers (premio Oscar per “Everything Everywhere All At Once”) è rapido e ironico, alternando scene di tenerezza a esplosioni di surreale violenza infantile (come la squadra di baby-soldato cacciatori). Finn Wolfhard (il Mike della serie tv “Stranger Things”) è Petro, fratello adottivo di Yuri, spaesato e diviso, soldato controvoglia dal cuore autentico.

Perdita e ritrovamento, linguaggi perduti ed educazione emotiva. La trama segue binari archetipici – la bambina ribelle, il mostro buono, il viaggio iniziatico – e talvolta manca di guizzi veramente sorprendenti, su cui Saxon reinventa ogni dettaglio con un approccio sperimentale che non ha paura di osare: nel tono, nelle immagini e nella materia. È un racconto tramandato attorno al fuoco e ogni imprecisione è parte della magia. Un’opera ambientalista e apertamente anticaccia. Il rapporto che si crea tra Yuri e l’Ochi cucciolo non è ‘politico’, ma sensoriale. “The Legend of Ochi” è una storia di frontiera tra infanzia ed età adulta, tra umano e animale, tra reale e fantastico. In un’epoca in cui tutto va spiegato, c’è ancora un mondo che non vuole essere capito ma semplicemente vissuto e ascoltato. Come musica.

di Edoardo Iacolucci

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