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Alzarsi tardi e comporre un capolavoro

Compie 55 anni una delle più belle canzoni mai scritte da John Lennon e Paul McCartney: “A day in the life”, traccia conclusiva del disco “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” degli indimenticabili Beatles.
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Alzarsi tardi e comporre un capolavoro

Compie 55 anni una delle più belle canzoni mai scritte da John Lennon e Paul McCartney: “A day in the life”, traccia conclusiva del disco “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” degli indimenticabili Beatles.
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Alzarsi tardi e comporre un capolavoro

Compie 55 anni una delle più belle canzoni mai scritte da John Lennon e Paul McCartney: “A day in the life”, traccia conclusiva del disco “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” degli indimenticabili Beatles.
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Compie 55 anni una delle più belle canzoni mai scritte da John Lennon e Paul McCartney: “A day in the life”, traccia conclusiva del disco “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” degli indimenticabili Beatles.
Pare che John Lennon fosse una persona molto pigra. La mattina presto, per lui una vera croce. Dura anche gattonare verso una stanza che non fosse a breve distanza dal suo letto. Così sembra. Il recente e splendido documentario “Get Back”, rieditato e montato da Peter Jackson – ripescaggio da 56 ore d’arte pura per il canale “Disney” – conferma in parte l’assunto. Il buon John, lo si nota, è sempre l’ultimo ad arrivare alle session di prova. Certo, debole indizio. Testimonianza più solida del cattivo rapporto di Lennon col risveglio sono alcune sue canzoni come “I’m only sleeping” (“Revolver”), “I’m so tired” (“White Album”) e i versi «People say I’m lazy» della bellissima “Watching the wheels” (“Double Fantasy”). Poco male. Eh sì, perché le neuroscienze accreditano a questo torporoso stato post sonno una grande valenza creativa. L’emisfero logico, quello sinistro, non si è del tutto attivato e l’essere umano, reduce dalla notte con un emisfero destro caricato a pallettoni, diviene un involucro di fantasia pura. Potrebbe quindi avere ragione il buon John che la mattina presto aveva, addirittura, difficoltà a leggere il giornale (in genere, il “Daily Mail”) e si limitava ad adagiarlo sul pianoforte a mo’ di spartito musicale. Da questa condizione parte l’avventura di una delle più belle canzoni mai scritte nella storia della musica rock: “A day in the life”, finale straordinario di quel capolavoro assoluto che fu “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”. 1967, ossia 55 anni fa. John raggiunge il pianoforte, gli smanetta sopra qualche accordo. Prima un Sol poi un Si minore. Inizia a bofonchiare quello che legge sul giornale: la notizia di un brutto incidente automobilistico in cui ha perso la vita Tara Browne dell’aristocratica famiglia Guinness e la scoperta di 4mila buche nel Lancashire. Niente di più… ma si spalanca un mondo. Il musicista di Liverpool è figlio putativo di due geni del nonsense e del calembour: Lewis Carroll (il padre di “Alice nel Paese delle Meraviglie”) e Sir Edward Lear, l’inventore dei limerick. Naturale per lui, quindi, combinare in un binomio fantastico di rodariana memoria elementi così distanti. Lennon mischia le carte: aggiunge al pianoforte un accordo di Mi minore, quindi un Do maggiore e la canzone può partire. Il resto è storia. “A day in the life”, intorpidito e nebbioso racconto di una giornata ordinaria inglese, diventa il maggiore affresco psichedelico dell’era pop. Complice il clan Beatles, McCartney e il produttore George Martin in testa. Il primo aggiunge a metà canzone un ipnopompico bridge cantando in stile stride anche lui di un risveglio e della necessità di cadere in un sogno; il secondo provvedendo, su indicazione dello stesso McCartney, a organizzare una delle più sconcertanti orchestrazioni mai concepite fino ad allora nella musica leggera. Un’intera orchestra che mescola note a caso partendo dalle più basse fino ad arrivare alle più alte. Un sontuoso Mi maggiore – suonato all’unisono da Martin, McCartney e Ringo Starr su altrettanti pianoforti a coda – sigilla l’evento. Il “New York Times” la definì «un evento pop storico», lo storico del rock Paul Grushkin andò oltre: per lui la canzone era «una delle più ambiziose, influenti e sconcertanti opere nella storia della musica pop». Tutto partito dalla stanza con un letto disfatto e dalla visione smerigliata di un pigro genio della musica e della poesia, così difficile da svegliare la mattina presto.   di McGraffio

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