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Dall’Eiar alla Rai, 70 anni che ne contano 80

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Il Paese che fa da sfondo a questa vicenda è un’Italia che sembra appartenere a un tempo remoto. E invece sono passati appena 80 anni

Eiar Rai

Dall’Eiar alla Rai, 70 anni che ne contano 80

Il Paese che fa da sfondo a questa vicenda è un’Italia che sembra appartenere a un tempo remoto. E invece sono passati appena 80 anni

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Dall’Eiar alla Rai, 70 anni che ne contano 80

Il Paese che fa da sfondo a questa vicenda è un’Italia che sembra appartenere a un tempo remoto. E invece sono passati appena 80 anni

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Il Paese che fa da sfondo a questa vicenda è un’Italia che sembra appartenere a un tempo remoto. E invece sono passati appena ottant’anni da quando, fra le ferite della guerra e l’incertezza del futuro, la nazione cercava la strada sulla quale percorrere i primi passi della propria rinascita. Un processo che passa attraverso varie fasi e dal quale nessun elemento è immune.

L’intenzione di cancellare qualsiasi riferimento al ventennio fascista era fra i principali obiettivi del governo provvisorio degli Alleati e in questo senso la comunicazione, che era stato potente strumento del regime, non poteva certo sfuggire. Fino al 26 ottobre 1944 le trasmissioni radiofoniche erano state diffuse attraverso l’emittenza di Stato, rappresentata dall’Ente italiano audizioni radiofoniche (Eiar). Nel corso della dittatura fascista l’Eiar era stato il megafono tramite il quale Mussolini aveva indottrinato le masse, nel tentativo di assoggettare il popolo al proprio verbo. Poi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, c’era stata una spaccatura: le sedi locali di Palermo, Napoli e Bari erano finite sotto il controllo alleato, mentre nella Repubblica sociale di Salò l’Eiar aveva mantenuto il proprio ruolo di megafono del morente totalitarismo. Fu questo uno dei motivi alla base dell’emanazione del decreto legislativo n. 457 del 26 ottobre 1944, con cui la vecchia denominazione dell’Eiar fu cambiata in Radio audizioni italiane spa, così da eliminare qualsivoglia riferimento al passato.

Nel 1945, dopo la liberazione, la Rai divenne il territorio perfetto per iniziare a rimodellare la coscienza popolare. Numerosi intellettuali contribuirono alla creazione di nuovi contenuti che, oltre a far dimenticare il tragico ventennio precedente, avevano anche il compito di costruire un nuovo linguaggio. Riorganizzata sotto la guida del giurista Arturo Carlo Jemolo, l’emittente di Stato prima ricostruì le reti di trasmissione danneggiate dai bombardamenti e poi, nel 1949, riprese anche le prime trasmissioni televisive sperimentali, iniziate nel 1939 e poi sospese a causa del conflitto.

Nel 1952 venne introdotto il canone. Due anni dopo il volto dell’annunciatrice Fulvia Colombo avrebbe inaugurato la nascita ufficiale della tv italiana. Il primo programma, ideato da Vittorio Veltroni, era “Arrivi e partenze” condotto da Armando Pizzo e da un giovane italoamericano che di quella Rai sarebbe diventato un simbolo: Mike Bongiorno.

Il nuovo mezzo entrò nella vita degli italiani e scandì l’evoluzione e i cambiamenti di un Paese che riscopriva sé stesso e voleva evolversi, dando al mondo la testimonianza della propria rinascita. Il tutto utilizzando un registro comunicativo vincente perché capace di mischiare l’alto con il basso e la cultura con l’intrattenimento, così da avvicinare ancora di più le anime di un’Italia che, almeno davanti al piccolo schermo, si riscopriva unita.

Il resto è storia nota. Dopo 80 anni la Rai è ancora lì, come parte della nostra quotidianità. Al di là dei tempi che cambiano, di un’offerta comunicativa che deve confrontarsi con la dinamicità delle piattaforme e con i gusti del pubblico che mutano sempre più velocemente. Ma di sfide, in questi decenni, la ‘madre’ della televisione italiana ne ha affrontate parecchie. Uscendone quasi sempre vincitrice. E contribuendo a renderci ciò che siamo ora. Poi, se questo sia stato un bene o un male, lo giudicherà chi verrà dopo di noi.

di Stefano Faina e Silvio Napolitano

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