“F1”, il nuovo film di Joseph Kosinski
Il motore si accende, la visiera si abbassa e il mondo smette di esistere. Restano soltanto la traiettoria, il battito e l’asfalto. “F1”, il nuovo film diretto da Joseph Kosinski è tutto qui
“F1”, il nuovo film di Joseph Kosinski
Il motore si accende, la visiera si abbassa e il mondo smette di esistere. Restano soltanto la traiettoria, il battito e l’asfalto. “F1”, il nuovo film diretto da Joseph Kosinski è tutto qui
“F1”, il nuovo film di Joseph Kosinski
Il motore si accende, la visiera si abbassa e il mondo smette di esistere. Restano soltanto la traiettoria, il battito e l’asfalto. “F1”, il nuovo film diretto da Joseph Kosinski è tutto qui
Il motore si accende, la visiera si abbassa e il mondo smette di esistere. Restano soltanto la traiettoria, il battito e l’asfalto. “F1”, diretto da Joseph Kosinski (già regista dell’adrenalinico “Top Gun: Maverick”) è tutto qui.
Sonny Hayes (interpretato da Brad Pitt) è una leggenda dimenticata. Un ex campione americano bruciato da un incidente – ormai ridotto a ricordo – che viene richiamato in pista dal vecchio amico Ruben Cervantes (un Javier Bardem ironico, ma sottoutilizzato) per salvare dal fallimento la scuderia di fantasia Apx Gp e fare da chioccia a Joshua Pearce (Damson Idris), un giovane promettente inglese dal talento ancora grezzo. Il film gioca sulla classica dinamica mentore-allievo e punta su archetipi solidi: l’uomo che torna, il ragazzo che sale, il passato che bussa. Ma resta privo di veri sussulti interiori. Sonny non cambia e non cade: guida e insegna senza profonda sofferenza. Anche Joshua, più che un personaggio, è un riflesso: ha rabbia, ma nessuna ombra credibile.
Dove “F1” accelera davvero è nella regia. Kosinski riprende la lezione di “Top Gun: Maverick”: spettacolo tecnico al servizio dell’esperienza sensoriale. Le vetture – monoposto F2 e F3 modificate – sono state filmate durante 14 weekend di gara reali, tra Silverstone, Daytona e Las Vegas. Brad Pitt e Damson Idris guidano davvero in pista davanti a migliaia di spettatori. Un’impresa unica (in cui è stato coinvolto in consulenza e produzione anche il ferrarista e 7 volte campione del mondo di F1 Lewis Hamilton) che ha richiesto oltre 50 telecamere, tra cui una inedita in tecnologia 6K montata direttamente all’interno dell’abitacolo. Con il risultato che, visivamente, “F1” è una volata di realismo ipercinetico che invita lo spettatore a mettere il casco e correre dentro il circuito.
Dietro questa impeccabile macchina visiva, la sceneggiatura di Ehren Kruger fatica tuttavia ad accendere il motore del racconto. Gli archetipi del cinema sportivo ci sono tutti – il campione caduto, il talento emergente, la scuderia sull’orlo del precipizio – ma restano sulla linea di partenza. E infine l’equilibrio tra realtà e finzione si spezza. “F1” diventa una passerella scintillante, punteggiata da sponsor in ogni angolo: «Ma qui non ci sono sigarette e birra, che pagano per continuare. Per continuare poi che cosa?» cantava Lucio Dalla in “Ayrton“. La macchina artistica del cinema si confonde con quella del marketing e la narrazione si perde così fra pit stop e loghi. La Formula 1 è una divinità a cui nulla si può chiedere: non ci sono critiche né lati oscuri. Soltanto luci, glamour e celebrazione. Un’ode al riscatto personale vestita da branded content.
La colonna sonora, firmata da Hans Zimmer (alla seconda collaborazione con Kosinski) è tra le migliori qualità dell’opera. Le musiche originali si alternano a brani contemporanei – da Doja Cat a Ed Sheeran – con l’intento di colpire target diversi, unire generazioni, moltiplicare l’appeal. Funziona, ma rientra nella logica di un film che è anche, inequivocabilmente, un prodotto transmediale: merchandising, videogame, interazioni digitali. Un universo parallelo costruito intorno al marchio.
“F1” è un film che corre più veloce di quanto riesca a pensare. È emozione immediata, luce che abbaglia e suono che scuote. Ma la narrazione manca di profondità, i personaggi di reali contraddizioni e il mondo rappresentato di conflitti. La pellicola però non mente, per questo è godibile e divertente: è ciò che vuole essere. Kosinski firma un’opera futurista, anche se con poche svolte emotive. È il sogno di un mondo in cui vincitori e vinti si confondono nel riflesso degli occhiali da sole. Kosinski della lezione di Lucio Dalla una cosa sembra avere ricordato: «Ho capito che era tutto finto».
di Edoardo Iacolucci
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