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Gli Who a Milano: l’urlo eterno del rock

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Gli Who planano su Milano con un rock più forte dei motori degli aerei di Linate. L’ultima volta? Probabilmente, ma il fuoco sacro è ancora vivo

Gli Who a Milano: l’urlo eterno del rock

Gli Who planano su Milano con un rock più forte dei motori degli aerei di Linate. L’ultima volta? Probabilmente, ma il fuoco sacro è ancora vivo

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Gli Who a Milano: l’urlo eterno del rock

Gli Who planano su Milano con un rock più forte dei motori degli aerei di Linate. L’ultima volta? Probabilmente, ma il fuoco sacro è ancora vivo

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Sono quasi le 22 al Parco della Musica di Milano quando sul palco si accendono le luci. Prima della musica, un pensiero veloce ma carico di significato: gli Who dedicano la serata a Ozzy Osbourne, con poche parole e un cenno del capo. Un omaggio silenzioso ma potente, tra giganti che parlano lo stesso linguaggio: quello del rock scolpito a colpi di chitarra, sudore e leggenda.

Poi, la musica. E un saluto che potrebbe essere stato davvero l’ultimo. L’ultima occasione per vedere dal vivo, a Milano, una delle band che ha riscritto la grammatica del rock, scolpendone il nome con il fuoco nella storia della musica…

Gli Who, sul palco del loro tour “The Song Is Over”, hanno lasciato un segno indelebile, come sempre, ma con una consapevolezza nuova: quella di essere al capitolo finale. E lo hanno fatto nel solo modo che conoscono: con l’urlo, il sudore e la potenza elettrica. Certo, nel rock mai dire mai, per carità. Di tour d’addio non tali ne abbiamo visti tanti e per come li abbiamo ascoltati sul palco questa sera un pizzico di speranza che valga anche per questi giovani ottantenni ci resta.

Roger Daltrey, 81 anni, canta come se il tempo si fosse preso una pausa per lasciarlo urlare ancora una volta. Non tutte le ottave sono quelle di un tempo – sarebbe disumano aspettarselo- ma certi acuti sfoderati nel cuore del live sono lì a ricordarci chi è Daltrey: una voce che ha attraversato i decenni, che ha cantato l’adolescenza ribelle e la maturità disillusa, e che ancora oggi vibra di una forza che non si può simulare. Per gli pseudocantantucoli odierni: prendere appunti.

E accanto a lui, c’è Pete Townshend, sciamano della chitarra, colui che ha fatto delle sei corde un manifesto di rabbia e bellezza. Le sue mani – nonostante gli anni – danzano, graffiano, dipingono. Il suono è ancora quello: quello di Tommy, di Quadrophenia, di My Generation. Quello che ha attraversato Woodstock, l’Isola di Wight, i templi della musica. La sua chitarra non suona nostalgia: suona attualità perché certe verità non invecchiano mai.

La band che li accompagna è rocciosa, precisa, in sintonia: Simon Townshen dalla chitarra, Loren Gold alle tastiere, Jon Button al basso, Scott Devours alla batteria e John Hogg ai cori.

La scaletta è un viaggio attraverso venti canzoni che non sono solo brani, ma tappe di una mitologia collettiva. Gli Who sono invecchiati, sì, ma non si sono mai arresi. E forse proprio per questo non sono mai diventati vecchiMilano li ha accolti con il calore che si riserva alle leggende, con un pubblico numeroso e partecipe, emozionato e grato. Pochissimi telefoni alzati, segno che in fondo, se si vuole, si può ancora godersi il momento. È stata una di quelle serate che restano incise nella memoria, come un vinile che non smetterai mai di ascoltare.

E se davvero è stata l’ultima, allora è stato il congedo perfetto. Con le corde che bruciano, le voci che graffiano e il cuore che batte ancora forte. Come solo il rock sa fare. Come solo gli Who sanno fare.

di Federico Arduini

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