Happy Days compie 50 anni
Happy Days compie 50 anni, forse la serie tv che più ha inciso nelle nostre liturgie quotidiane e che ha disegnato il futuro delle serie televisive
        
        		
				
	
		
	
		
        
	
		
	
		
        
        
    
Happy Days compie 50 anni
Happy Days compie 50 anni, forse la serie tv che più ha inciso nelle nostre liturgie quotidiane e che ha disegnato il futuro delle serie televisive
        
                        		
				
	
		
	
		
        
	
		
	
		
        
        
    
Happy Days compie 50 anni
Happy Days compie 50 anni, forse la serie tv che più ha inciso nelle nostre liturgie quotidiane e che ha disegnato il futuro delle serie televisive
        
                        		
				
	
		
	
		
        
	
		
	
		
        
        
    
AUTORE: Nicola Sellitti
Giubbotto di pelle, ciuffo alla Elvis – quando Elvis era religione per gli americani – moto, sorriso rassicurante e quel pollice, alzato al comando. Arthur Fonzarelli (in quasi ogni angolo degli Stati Uniti c’è traccia di sangue italiano), “Fonzie” compie 50 anni come “Happy Days”, forse la serie tv che più ha inciso nelle nostre liturgie quotidiane e che ha disegnato il futuro delle serie televisive.
Oltre 250 puntate fino al 1984, esordio su Abc, in Italia dal 1977 (su Rai 1), Happy Days ha messo sulla mappa un fenomeno come Ron Howard – era “Richie” il bravo ragazzo di origini irlandesi la cui famiglia, i Cunningham, affittano una camera a Fonzie -, poi regista premio Oscar (con ‘A Beautiful Mind’) e ovviamente Henry Winkler, “Fonzie” appunto, che si è ritrovato disegnato addosso quel personaggio per tutta la sua carriera. Al punto che a Milwaukee si è visto dedicare una statua.
La serie portava in scena un’America serena, unita, segnata da humour bianco e buoni sentimenti. La famiglia di Milwaukee (la città dell’Harley Davidson, ecco spiegato il legame con la moto di Fonzie), incrocio tra est e ovest – ma in realtà è stata girata a Hollywood e le riprese di casa Cunningham erano ambientate in una casa a Los Angeles – che accoglie il presunto ribelle che difende – tra baci infiniti alla ragazza di turno e lunghi silenzi – la vittima di turno di bullismo, violenze e razzismo.
Accoglienza e distensione, problemi risolti da Fonzie e poi il ballo della canzone selezionata al juke box nel locale dove si riunivano i protagonisti della serie: tutti da Arnold’s, aprendo così un filone che porterà altre due serie cult a costruire il racconto delle puntate intorno a un bar o caffè: al Peach Pit di Beverly Hills 902010, al Central Park, la caffetteria dove sono stati ambientati quasi tutti gli episodi di Friends. In entrambe le serie cult però non c’è stato il disincanto che ha caratterizzato Happy Days. Un disegno color pastello di un paese invece attraversato da fenomeni luttuosi, come la guerra in Vietnam e l’inflazione. Un paese estremamente diverso da quello disegnato da Donald Trump, che questa notte si presenta come netto favorito nel primo caucus americano (si parte dall’Iowa) che porterà alle elezioni del presidente, a novembre. Happy Days è stata volutamente una specie di placebo, una camomilla per la realtà americana, estremamente diversa da quella messa in scena tra Fonzie, Richie, Joanie e i Cunningham.
È stata anche la serie che ha portato sullo schermo Robin Williams e Tom Hanks e in Italia il suo straordinario successo – in una realtà che era totalmente all’asciutto del fenomeno sit-com – lo si deve anche ai doppiatori in italiano. Antonio Colonnello è stata la voce degli “Heyyy” di Fonzie e anche quella del perfido J.R. Ewing nell’altro serial cult “Dallas”, poi, tra gli altri, Flavio Bucci – grande irregolare del cinema italiano – che è stato “Potsie”. Resta un unico enigma, mai risolto del tutto: dalla terza serie in poi si girò con il pubblico (e le risate) in studio, ma in Italia si doppiò senza risate in sottofondo.
di Nicola Sellitti
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-             Tag: Evidenza, televisione
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