Il cinema non è un bancomat
Una semplice riflessione sul mantra che ci insegue da decenni: “la crisi (irreversibile, dicono) del cinema italiano”. L’eterna forza delle storie
Il cinema non è un bancomat
Una semplice riflessione sul mantra che ci insegue da decenni: “la crisi (irreversibile, dicono) del cinema italiano”. L’eterna forza delle storie
Il cinema non è un bancomat
Una semplice riflessione sul mantra che ci insegue da decenni: “la crisi (irreversibile, dicono) del cinema italiano”. L’eterna forza delle storie
Una semplice riflessione sul mantra che ci insegue da decenni: “la crisi (irreversibile, dicono) del cinema italiano”. L’eterna forza delle storie
Premessa: questo non è un post-articolo sul film di Paola Cortellesi. Se interessati, vi rimandiamo a più di una critica pubblicata da La Ragione, sia in edizione cartacea che online. Non è un “pezzo” di valutazione cinematografica, insomma, ma di semplice riflessione di un appassionato sul mantra che ci insegue ormai da decenni: “la crisi (irreversibile, dicono) del cinema italiano”.
Poi, con cadenza purtroppo irregolare arrivano sempre delle “pellicole” in grado di sovvertire clamorosamente la narrazione della fine prossima ventura. In questo caso, la brava Cortellesi – alla prima prova da regista con il suo “C’è ancora domani” – ha spazzato via non solo dubbi e perplessità, ma qualsiasi avversario nella corsa degli incassi. Per quanto il botteghino non sia un giudice inappellabile, denari e presenze in sala sono l’unico termometro in grado di misurare la capacità di un progetto artistico – o anche solo di intrattenimento – di arrivare al pubblico. Di fare il suo mestiere. La Cortellesi lo sta facendo eccome con i suoi oltre 11 milioni di euro raccolti, che per le medie italiane assomigliano più o meno al Nirvana.
Come da premessa, lasciamo pure da parte le valutazioni strettamente “cinematografiche”, ma è del tutto evidente che ancora oggi a vincere siano le storie, le idee e i messaggi. Tutto sta cambiando, se preferite evolvendo, ma se c’è qualcosa che non può cambiare è la forza delle storie. Un’energia eterna, che risale a molto prima dei fratelli Lumière, fino alle radici dell’idea stessa di tramandare memorie, valori, moniti, lezioni e morali in forma orale o scritta. Un’esigenza connaturata all’essenza dell’essere umano. Lo abbiamo sempre fatto e lo faremo sempre, in piena era digitale così come quando ci radunavamo intorno al fuoco o ascoltavamo gli anziani, i cantastorie e così via. Mi sembra di leggere alcuni commenti: “Ma come la fa lunga per parlare, in fin dei conti, di un film sull’Italia dell’immediato dopo guerra”. Una sorta di omaggio sentito e intelligente – aggiungiamo – al neorealismo che ci fece ammirare in tutto il mondo e a cui, non dimentichiamolo mai, dobbiamo un pezzo non trascurabile della ricostruzione della nostra credibilità e presentabilità internazionale.
Il punto non è tanto unirsi al coro di elogi (strameritati) a Paola Cortellesi, ma sottolineare che non serve urlare alla fine del cinema italiano, prendersela con le piattaforme di streaming, il cinema americano, i videogame o qualsiasi altra forma di intrattenimento contemporanea, se tutto quello che si sa fare è chiedere sempre più soldi per finanziare film che non vedrà nessuno né al cinema né a casa.
Bisogna “semplicemente” fare quello che sappiamo fare da sempre e che ci vede fra i migliori al mondo: produrre idee da tradurre in emozioni, risate, lacrime, sospiri, nostalgia, gioia, interesse, curiosità, dubbi. Bisogna fare cinema, che è una forma d’arte e non può essere svilita a bancomat.
Di Fulvio Giuliani
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