“Il Maestro”, il nuovo film di Andrea Di Stefano
Ci sono estati che arrivano una volta sola, come certi maestri. Non quelli che vincono trofei, ma quelli che ti insegnano anche a perdere. “Il Maestro”, nuovo film di Andrea Di Stefano, è il racconto di una di quelle estati
“Il Maestro”, il nuovo film di Andrea Di Stefano
Ci sono estati che arrivano una volta sola, come certi maestri. Non quelli che vincono trofei, ma quelli che ti insegnano anche a perdere. “Il Maestro”, nuovo film di Andrea Di Stefano, è il racconto di una di quelle estati
“Il Maestro”, il nuovo film di Andrea Di Stefano
Ci sono estati che arrivano una volta sola, come certi maestri. Non quelli che vincono trofei, ma quelli che ti insegnano anche a perdere. “Il Maestro”, nuovo film di Andrea Di Stefano, è il racconto di una di quelle estati
Ci sono estati che arrivano una volta sola, come certi maestri. Non quelli che vincono trofei, ma quelli che ti insegnano anche a perdere. “Il Maestro”, nuovo film di Andrea Di Stefano, è il racconto di una di quelle estati: un viaggio tra veloci rettilinei e curve a gomito, tra illusioni e rivelazioni, tra accenti stonati e silenzi che parlano. Racconta così l’impatto che un mentore imperfetto può avere sulla vita di un ragazzo e come le persone zoppicanti ma autentiche possano cambiare un destino più di qualsiasi vincente impeccabile.
Siamo alla fine degli anni Ottanta. Felice (interpretato con la giusta profondità da Tiziano Menichelli) ha 13 anni e una racchetta più grande di lui. Suo padre Pietro (impersonato da Giovanni Ludeno) è un ingegnere rigoroso, figlio di quella piccola borghesia che spinge e pretende, convinta che ogni sacrificio sia amore. Sul ragazzino ha scommesso ogni cosa. Una famiglia napoletana (anche se la sorella parla romano) che vive nel razionalismo giallo e grigio del Villaggio Olimpico, a Roma. Una di quelle famiglie in cui l’amore prende la forma del controllo, dei piani, dei tornei. Il padre ama citare Sun Tzu: «Il miglior attacco è la difesa». E pretende che anche il figlio giochi così. Nessun margine per il dubbio, per l’errore, per il piacere. Felice passa dai tornei regionali a quelli nazionali facendo il “pallettaro”. Ora per il salto agonistico serve un insegnante all’altezza. Niente vacanze estive.
Arriva così Raul Gatti – sedicente ex campione, un ottavo di finale agli Internazionali di Tennis di Roma e un curriculum fatto più di leggende che di match – e il campo si inclina. Pierfrancesco Favino lo interpreta con una verve sbruffona e tragica, come fosse il Manuel Fantoni di “Borotalco”: un personaggio da commedia all’italiana, sornione, paonazzo, affabulatore che con il suo accento napoletano riesce ad amplificare il senso di spaesamento.
Il film narrativamente si sviluppa come un romanzo estivo di formazione. Felice è attratto suo malgrado verso due poli magnetici. Da un lato la linearità di una vita nei binari, fatta di orari, schemi e muscoli tesi; dall’altro genio e sregolatezza bukowskiana, (anzi, qui è il caso di citare il tennista Guillermo Vilas) un po’ depressa, che mescola alcol, filosofia urbana e dolori psichici. Il viaggio di Felice e Raul lungo la costa italiana diventa un percorso di libertà e redenzione. È una strada che cambia entrambi. Felice scopre che può respirare senza soffocare nelle aspettative paterne; Raul intravede la possibilità di un nuovo inizio, forse l’ultimo.
Le scene oscillano con grazia tra malinconia e sole. Lungo la costa italiana, tra pensioni scolorite e campi da tennis arsi dal sole, “Il Maestro” prende ritmo. È un film diesel: parte con lentezza, poi si accende. Non grida mai, ma colpisce nei dettagli: uno sguardo, una risata, una bugia detta per proteggere. Favino come sempre riempie intensamente ogni scena, nel suo oscillare da buffone istrionico a padre surrogato. Ma come un vero maestro lascia il giusto spazio a Tiziano Menichelli, che nei panni di Felice è una rivelazione: puro, trattenuto, capace di raccontare tutto con un gesto.
La scrittura di Di Stefano e Ludovica Rampoldi non teme i cliché del genere, ma li attraversa trovando equilibrio tra malinconia e leggerezza, tra risata e ansia. La fotografia di Matteo Cocco colora pienamente i volti e i paesaggi italiani. E la musica – da Bartosz Szpak a Franco Battiato – accompagna come una playlist trovata in un vecchio mangianastri.
“Il Maestro” è un viaggio e un monito: contro l’eccessiva pressione nello sport giovanile, contro l’idea che un figlio possa diventare la rivincita delle proprie frustrazioni. Restituisce così ai giovani la loro libertà di fallire e agli errori degli adulti la loro umanità.
di Edoardo Iacolucci
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