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L’America di Springsteen: il faro della libertà non si spegne – IL VIDEO

Al cospetto di una leggenda americana e mondiale come Bruce Springsteen il rischio della ripetitività, dei luoghi comuni, del già letto e sentito è gigantesco. Vale la pena correrlo, dopo il doppio ritorno del rocker a San Siro

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Al cospetto di una leggenda americana e mondiale come Bruce Springsteen il rischio della ripetitività, dei luoghi comuni, del già letto e sentito è gigantesco.

Vale la pena correrlo, dopo il doppio ritorno in uno dei luoghi più sentiti dal rocker di Freehold-New Jersey e dall’intera E Street Band: lo stadio Giuseppe Meazza di San Siro a Milano.

Per l’iconicità del luogo, senza dubbio, ma molto più per quel senso di familiarità – difficilmente spiegabile a chi non l’abbia mai provato – che hanno avvertito per l’ennesima volta i 116.000 spettatori delle due date milanesi e le centinaia di migliaia in ogni angolo della terra dove si esibisca Bruce.

È una storia radicata

È una storia radicata, una “lunga strada verso casa” tramandata fra più generazioni e che ha giocoforza pochissimi paragoni possibili.

Anche perché, nonostante la straordinaria vitalità di artisti leggendari e sottratti al giogo del tempo come i Rolling Stones, gli AC/DC e qualche altro, la continuità di Bruce Springsteen non ha eguali.

Decenni a raccontare quell’America che oggi è diventata, a causa di Donald Trump convitato di pietra del concerto, una gigantesca e plastica nostalgia.

La vocazione “politica“ della musica di Springsteen

La vocazione “politica“ della sua musica non aveva bisogno di un Presidente degli Stati Uniti mai visto – letteralmente – per ritrovare forza.

È sempre stata lì, nella dimensione del racconto, dell’omaggio, del dolore, della memoria riconoscente di una tipologia di America e americani che il volgare muscolarismo di oggi della Casa Bianca sembra voler cancellare. Come se di quell’America ci si dovesse vergognare, quando è proprio l’epopea cantata per 50 anni da Bruce, come abbiamo scritto quando il Boss, già nella prima data milanese, ha attaccato il tycoon.

L’America che tutti noi abbiamo eletto a faro di libertà, democrazia, progresso e speranza. “La terra della speranza e dei sogni“ è diventata così una delle canzoni più potenti ed evocative di un repertorio sterminato.

Vista dagli spalti di San Siro, l’America di Springsteen è un America per cui vale la pena lottare e impegnarsi anche a distanza, per ritrovare un punto di riferimento irrinunciabile, ancor più per chi come me è nato alla fine degli anni Sessanta.

Non solo una serata di nostalgia, ammirazione sconfinata e piacere artistico. È una certezza, condivisa con fan ultrasettantenni che c’erano nel 1985 con giovani compagni e oggi salgono lentamente le scale di San Siro con i loro nipotini. La certezza che quello scrigno di ideali non potrà essere spazzato via dalla volgarità e dal cinismo.

Non è vuota speranza, non è affidarsi alla sorte, è saper ancora distinguere i giganti dai nani.

Perché il potere di oggi potrà diventare la vergogna di domani e se un indomabile rocker riesce ancora oggi a risultare immensamente più credibile (e pericoloso per un uomo ossessionato come Donald Trump) di tanti leader pallidi e insicuri è perché la forza del messaggio, delle verità e di quelle vite cantate in decenni di puro rock’n’roll continuano a infiammarci.

di Fulvio Giuliani

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