La poesia rock di Chuck Berry
La poesia rock di Chuck Berry, considerato a tutti gli effetti (e a tutte le latitudini) il “padre del rock ‘n’ roll”
La poesia rock di Chuck Berry
La poesia rock di Chuck Berry, considerato a tutti gli effetti (e a tutte le latitudini) il “padre del rock ‘n’ roll”
La poesia rock di Chuck Berry
La poesia rock di Chuck Berry, considerato a tutti gli effetti (e a tutte le latitudini) il “padre del rock ‘n’ roll”
AUTORE: Alberto Fraccacreta
Chi non ha nella mente la longilinea figura di Chuck Berry che si piega quasi fino a terra per riprodurre il “Duck Walk”, il passo dell’anatra? Nato a Saint Louis nel 1926 da una famiglia della middle class del Missouri, introdotto nella Chess Records da Muddy Waters, Berry è considerato a tutti gli effetti (e a tutte le latitudini) il “padre del rock ’n’ roll”. Addirittura, secondo John Lennon, «se vuoi provare a dare un altro nome al rock ’n’ roll, puoi chiamarlo Chuck Berry». Canzoni come “Maybellene” (1955), “School Days” (1957) e, specialmente, “Johnny B. Goode” (1958) sono entrate nella memoria collettiva e ancora oggi figurano senza sosta in videoclip e pubblicità. I temi dell’opera di Berry sono intrinsecamente legati alla spensieratezza giovanile contro le costrizioni degli adulti, anticipando così – con Little Richard ed Elvis Presley – le rivolte esplose negli anni Sessanta. Il critico musicale del “New York Times” Jon Pareles ha detto in una circostanza che Chuck ha concepito il rock come «una musica di desideri adolescenziali soddisfatti (anche con poliziotti all’inseguimento)».
C’è chi ha parlato più propriamente di “poesia rock”. Definizione forse un po’ ardita che, però, rende l’idea del rapporto inestricabile – almeno negli Stati Uniti – fra musica e letteratura con reciproche, estenuanti influenze e osmosi. Sintomatica del nuovo che arriva ex abrupto archiviando il vecchio è “Roll Over Beethoven” (1956), una canzone probabilmente rivolta alla sorella Lucy che si esercitava al pianoforte monopolizzandolo con pezzi classici. «Sai, la mia temperatura sale. / Il jukebox sta per esplodere. / Il cuore batte nel rhythm / e l’anima continua a cantare il blues. / Lascia perdere Beethoven / e dai a Čajkovskij la notizia». È questa la cifra peculiare dei testi del cantautore americano: la leggerezza della società dei consumi, le scorribande dei teenager. Il tutto condito con riff chitarristici innovativi e abbellimenti in glissato.
Fra i grandi successi della discografia berryana c’è “You Never Can Tell”, pubblicato nel disco “St. Louis to Liverpool” del 1964. Il brano appare anche in “Pulp Fiction” (1994) di Tarantino nella scena che vede protagonisti Uma Thurman e John Travolta in una gara di ballo. In “You Never Can Tell” due giovanotti si sposano e un gruppo di vecchietti fa loro gli auguri con una punta di perplessità: «“C’est la vie”, dicevano gli anziani, / non si può mai sapere quello che ti capiterà». Per fortuna le cose vanno per il meglio: il ragazzo trova lavoro, riesce a comprare «un impianto hi-fi» e «settecento dischi, tutti rock, rhythm and jazz». La promessa di prosperità si compie con la festa d’anniversario che prelude ad anni di felicità. E sempre, in sottofondo, l’ironico cenno d’incertezza. «Comprarono una jitney truccata, / era una “cherry red” del ’53. / Guidarono fino a New Orleans / per festeggiare il loro anniversario. / Era lì che Pierre si era sposato / con la bella signorina. / “C’est la vie”, dicevano gli anziani, / non si può mai sapere quello che ti capiterà».
di Alberto Fraccacreta
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