Alta fedeltà – L’adattamento inclusivo di Hulu
Alta fedeltà (High fidelity): Riadattare un cult e renderlo inclusivo per parlare alle nuove generazioni di una storia che non muore mai. Il rischio però è quello di rimanere ancorati al passato.
Nel 1995 Nick Hornby pubblicò un romanzo che per molti diventò una vera e propria guida di sopravvivenza alla fine di una relazione.
Grazie all’ironia, alla presenza di personaggi incisivi e soprattutto alla leggerezza con cui veniva trattato l’argomento, il libro diventò un vero e proprio cult negli anni 90’, tanto che si pensò di adattarlo per lo schermo negli anni 2000, di farne un musical per Broadway nel 2006 e infine una serie TV nel 2020.
Ho letto Alta Fedeltà (High Fidelity) almeno tre volte. Quando uscì, nel 1995, avevo solo quattro anni e non potevo immaginare che un giorno avrei tremendamente sofferto per la fine di una relazione e che mi sarei servita di un best-seller per diminuire le crisi di pianto giornaliere. Quello che più mi colpì, fu la capacità dell’autore di indurmi a entrare in empatia con un protagonista assolutamente discutibile.
Rob Fleming, trentacinquenne nostalgico proprietario di un negozio di dischi a Londra, viene lasciato dalla sua fidanzata Laura, sostanzialmente perché considerato infantile e non in grado di progettare un futuro. Lui, invece di indagare su quanto veritiere siano le “accuse” della sua donna, si chiude nel suo mondo fatto di musica, ricordi e classifiche.Un grande classico: ci si lascia, si piange e ci si dispera, si cercano risposte altrove e si torna al punto di partenza. Una storia adatta ad ogni epoca, o forse.
La serie tv di Hulu infatti, prodotta ben venticinque anni dopo, riadatta la trama in chiave moderna senza troppi compromessi. Rob (interpretata dalla magnetica Zoë Kravitz) è donna, nera e bisessuale. La colonna sonora spazia tra diversi generi includendo nuove sonorità. I personaggi principali quasi mai etero o bianchi. Una scelta inclusiva, che mira a raccontare una nuova generazione ma che sembra comunque guardare al passato.
E allora un po’ viene da domandarsi quale sia il senso di riadattare un cult, quasi a sottolinearne le mancanze, per poi comunque rivolgersi ad un pubblico di nostalgici.
Perché narrare di una nuova generazione tramite un racconto che non le appartiene?
Siamo onesti: certa musica non muore mai, così come il musicofilo appassionato del vinile, ma la verità è che Rob nel ’95 amava in modo distratto e sognante, e non aveva nessuna intenzione di cambiare, nonostante il mondo glielo chiedesse.
Il Rob del 2020 affronta i suoi demoni, comprende i suoi errori e ama come oggi: in modo confuso e liquido. Decisamente un’altra storia.
di Elena Bellanova
La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
Iscriviti alla newsletter de
La Ragione
Il meglio della settimana, scelto dalla redazione: articoli, video e podcast per rimanere sempre informato.