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Le donne afghane, un racconto già visto in tv

Mettono i brividi le similitudini tra l’attuale situazione delle donne afghane e quella raccontata nella serie tv Hulu “Il racconto dell’ancella”, dove le vittime diventano anche carnefici.
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Le donne afghane, un racconto già visto in tv

Mettono i brividi le similitudini tra l’attuale situazione delle donne afghane e quella raccontata nella serie tv Hulu “Il racconto dell’ancella”, dove le vittime diventano anche carnefici.
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Le donne afghane, un racconto già visto in tv

Mettono i brividi le similitudini tra l’attuale situazione delle donne afghane e quella raccontata nella serie tv Hulu “Il racconto dell’ancella”, dove le vittime diventano anche carnefici.
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Mettono i brividi le similitudini tra l’attuale situazione delle donne afghane e quella raccontata nella serie tv Hulu “Il racconto dell’ancella”, dove le vittime diventano anche carnefici.
Immaginiamo un futuro distopico in cui le donne non potranno più lavorare, accedere a una reale istruzione, dove verranno braccate come animali se nubili o vedove per essere donate in sposa a un patriota, subendo stupri, diventando di fatto schiave sessuali. Immaginiamo che la repressione del regime vieti loro ogni forma di espressione, di protesta, di libertà, rendendole di fatto un accessorio, utili solo alla continuazione della specie. È la trama de “Il Racconto dell’Ancella” (The Handmaid’s Tale), la sorprendente serie in onda su Prime, che ricorda terribilmente ciò che sta accadendo in Afghanistan da quando il regime talebano è salito al potere. Gli ultimi giorni raccontano di una ventina di attiviste scese in strada a Kabul stringendo cartelli che rivendicano il diritto all’istruzione, al lavoro, alla libertà; una goccia in mezzo al mare che difficilmente cambierà la situazione ma che parla di un coraggio enorme, di chi nonostante tutto non si arrende a un destino iniquo e già scritto. Oggi guardare la serie tv “Il racconto dell’Ancella” dopo gli accadimenti di questi ultimi due mesi mette i brividi; dal nostro comodo divano ci immergiamo in un futuro fin troppo verosimile, dove gli Stati Uniti vengono smembrati da una teocrazia totalitaria e le donne private di identità, utilizzate al solo scopo di servire il sistema come mogli, madri, domestiche o addirittura schiave sessuali. Il concetto disturbante della serie, infatti, fa leva proprio su queste ultime, essendo le uniche donne fertili. Le ragazze in grado di procreare vengono assegnate alle famiglie elitarie subendo stupri ritualizzati al fine di ripopolare il paese;  quindi le mogli sterili, durante alcune delle scene più raccapriccianti, le immobilizzano per permettere ai loro mariti (i Generali) di abusare di loro. Margaret Atwood, autrice del libro da cui è tratta la serie, già nell’85 aveva sottolineato quanto la paura e l’ossessione per un’ideologia possano spingere a volte le stesse vittime a diventare carnefici. È questo il ruolo delle mogli che tengono ferme le ancelle durante lo stupro, credendo di servire un fine più alto. Alla luce di queste considerazioni, fa riflettere l’episodio accaduto nell’anfiteatro dell’Università “Shaheed Rabbani” a Kabul, dove trecento donne si sono dissociate dalle posizioni assunte da tutte coloro che hanno agito in protesta, difendendo le misure adottate dal regime talebano. Con il suo romanzo, la Atwood cerca di suscitare un’identificazione da parte del lettore, ambientando di proposito la storia in un Occidente come siamo abituati a conoscerlo: patria inespugnabile di valori di libertà e uguaglianza. Lo stesso ha provato a fare Bruce Miller, creatore della serie TV che trasmette lo stesso concetto tramite immagini spesso brutali. Non troppo lontano da noi sta accadendo qualcosa di fin troppo simile , una tragedia umanitaria a cui assistiamo come spettatori inerti. Episodi reali di donne private della loro libertà, che suscitano quello stesso sgomento, fastidio, timore che proviamo davanti alla tv con un’unica grande differenza: le donne afghane sono più vere che mai. Continuiamo a seguire le loro vicende con il fiato sospeso, sperando solo che, come nella serie tv, scappare non resti l’unica soluzione. di Elena Bellanova

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